Aspettando la fine del mondo
di Caterina Davinio
Fermenti, 2012
pp.123, € 12,50.
di Caterina Davinio
Fermenti, 2012
pp.123, € 12,50.
Nel giro di soli due
anni, Caterina Davinio ha dato alle stampe tre brevi libri di poesia che
l’hanno proiettata con decisione sullo sfondo della poesia italiana
contemporanea, affermandola come una delle voci poetiche italiane più originali
e riconoscibili. Caterina Davinio, con questo terzo volumetto, conferma di
avere qualcosa di non comune e risaputo da dire e d’avere un suo stile per
dirlo. Dei primi due mi sono già occupato sul nostro sito, quest’ultimo non
solo ripropone alcuni temi e alcuni stilemi che in quelle occasioni avevo
cercato di mettere in evidenza, ma ne aggiunge di nuovi e assume nuove
prospettive, ribadendo che la poesia di Davinio è tuttora in movimento e sa
seguire e rappresentare le diverse esperienze esistenziali da cui trae origine.
In Aspettando la fine del mondo, la
poetessa si inspira a viaggi personali in Africa e in India e li trasfigura,
con la sensibilità che le è propria, in un’esperienza reale e metaforica capace
di rimettere in discussioni certezze e grigiumi tipici della vita quotidiana,
comune, comoda e ben ordinata dell’umanità media occidentale. In realtà, il
vivere comune, squadrato, abitudinario, “borghese”, si sarebbe detto un tempo,
è uno dei bersagli tematici più costanti della scrittura poetica di Davinio: un
vivere, un sentire, o, per meglio dire, un non-sentire, un ottundimento, che
l’accesa sensibilità artistica della poetessa stravolge e smaschera.
L’originalità
e la riconoscibilità della voce di Caterina Davinio, al di là delle concrete
espressioni in cui si manifesta e dei temi “forti” di cui è intessuta, consistono
innanzitutto in una mirabile capacità di ridurre al minimo l’intercapedine tra
sensibilità ed espressione. Intendiamoci, la poesia di Davinio non è né ingenua
né banalmente immediata, ma tutto il lavorio intellettuale e spirituale che
pure la nutre rimane al di qua dell’espressione, non appare in primo piano,
cosicché sensibilità ed espressione, da intendere come concreta realizzazione
della comunicazione linguistica di essa, entrambe in rapporto dialettico con quel
lavorio, risultano ravvicinate, quasi immediatamente
sovrapposte una all’altra. La poesia di Davinio non è solo comunicativa, non
solo sa trasmettere gli stati d’animo dell’io lirico, ma riesce ad esprimerli e
farli sentire non tanto sulla base del contenuto concettuale delle parole, ma
soprattutto sulla base delle immagini, del ritmo delle composizioni e dello
stile.
È una poesia tutt’altro che minimalista, i
temi sono forti e le espressioni lo sono altrettanto, in essa non si
contemplano gatti sonnacchiosi o rubinetti sgocciolanti, bensì ci si confronta
coi sentimenti, gli stati d’animo, le ragioni primordiali del vivere e del
morire. La perdita di sé, con tutto il carico comune e abitudinario
dell’umanità occidentale, la profonda empatia con il mondo “altro”, nel caso di
questo volume, con l’umanità, derelitta e feroce, violenta e vitale, e i
paesaggi, maestosi e implacabili, aridi e inospitali, dell’Africa e dell’India,
sono esperienze vissute e rappresentate poeticamente avvalorando una fiducia
nella parola che può diventare performativa, incidere nell’animo, se non nella
vita, del lettore, ma solo perché l’esperienza e le parole hanno inciso
nell’animo e nella vita di chi le pronuncia, hanno, cioè, già attraversato
un’anima e una vita, prima ancora dell’elaborazione intellettuale di
quest’anima e di questa vita.
I rischi di questa poesia
sono l’enfasi e, nel caso specifico dei viaggi esotici, il pittoresco. Sono i
rischi già denunciati, sul piano ideologico e sociologico, dal
post-colonialismo, a partire dall’orientalismo di Edward
Said. L’enfasi come forma della primazia occidentale che innalza il
tasso dell’investimento retorico perché incapace di mettersi a livello del
diverso, e il pittoresco come paternalistica marginalizzazione di stili di vita
e comunità eccentriche rispetto ad una presunta centralità occidentale. Queste
poesie si confrontano e, a mio modo di vedere, superano i rischi
dell’eurocentrismo rifiutando d’acchito la frontalità, il porsi di fronte
all’”altro” in atteggiamento più o meno pietoso o indulgente. Poi sostituendo
l’enfasi con quella che definirei un’umile perentorietà, ossia la capacità di
affermare un punto di vista determinato trascinandosi dietro, però, tutte le
ambiguità e le contraddizioni irrisolte da cui nasce, non ultima la cattiva
coscienza: «feci elemosine codarde». La raccolta si apre con queste parole:
«Vi/chiedo perdono/perché la notte africana/ha devastato il mio impero». Si
pone, cioè, subito il tema del confronto, del rapporto tra l’io, occidentale,
razionalista, imperialista, con il mondo “sud-orientale”, spiritualista,
comunitario. E, paradossalmente, si supera il pittoresco proprio lasciandolo
indifeso e inelaborato, proprio presentandolo come tale, così come è apparso
all’io lirico nella immediata percezione di una natura tutt’affatto diversa da
quella cui siamo abituati: «Africa,/tu mi dicesti il leopardo/le sue
scorribande nella selva».
È dalla paritaria, ma non ingenua, relazione con l’altro che possono originarsi quei momenti di gioia pura capaci di contrapporsi al generale senso di fine e di morte che spira forte in queste poesie e nel mondo. E’ una felicità provvisoria e minacciata, è «un atto dovuto/e un’ombra grigia». Paolo Mantioni