Il pubblico durante la pausa |
Una volta di più ho potuto constatare come, se opportunamente veicolata, la poesia può attirare pubblico, vendere molti libri, avvicinandosi finalmente ad altre e ben più fortunate forme letterarie. Mi si obietterà che in Inghilterra si legge più che in Italia; obiezione che in questo caso respingo al mittente, visto che qui per la poesia le cose non vanno poi tanto meglio che nel nostro paese. Prova ne è che Astley - che dietro un’apparenza trascurata è un perfetto binomio di passione autentica e intuizione imprenditoriale - inizia il suo discorso riportando alcuni (deprimenti) dati sulle vendite della poesia contemporanea in Inghilterra, dimostrando come Bloodaxe sia riuscita a opporsi a tale china.
Anzitutto, i dati: di tutta la poesia venduta fino al 2000, solo il 5% è di poeti vivi e vegeti; di questo 5%, i 2/3 sono raccolte del Nobel Seamus Heaney (per l’Italia, sostituire il nome Merini al nome Heaney: così, tanto per avere un’idea della decadenza poetica del nostro, di mainstream). Ma come mai, si chiede Astley, l’aver letto Heaney non ha portato i lettori ad approcciare altri autori? Parte del problema, a quanto pare, risiede nell’offerta povera e ristretta delle case editrici più in vista, che si limita a pubblicare autori britannici. Un tipo di poesia, nelle parole di Astley, “safe, and often predictable” (“che non rischia, e spesso prevedibile”). Come dargli torto: quelle quartine eternamente rimate, quell’alone di nostalgia e narrazione che sono diventate una dominante nel tipo di offerta della maggior parte delle case editrici… all’uniformità stilistica va aggiunto un vero e proprio provincialismo - o Little Englandism, come ho letto altrove - che è sotto gli occhi di tutti: personalmente, in un anno di residenza qui, non ho quasi trovato sugli scaffali un libro di un poeta irlandese o americano o australiano(tutti casi in cui nemmeno si porrebbe il problema della barriera linguistica!)
Contro questo duplice difetto strutturale - magro numero di vendite e autoreferenzialità del sistema editoriale britannico - si è battuta e si batte Bloodaxe. Fondata nel 1978, questa casa editrice si è subito posta l’imperativo della trasversalità - tanto stilistica quanto geografica - delle voci proposte. Il catalogo spazia da un poeta coreano come Ko Un a un’antologia di poesia cinese contemporanea, da un poeta performer come Benjamin Zephanian a uno sperimentale formato su modelli ermetici come Jeremy Prynne (una sorta di Zanzotto britannico, se possibile più estremo ancora). E molto altro ancora. Non c’è l’idea di linea editoriale com’era un tempo da noi; forse perché l’idea è maggiormente pragmatica e reader-oriented, nel tentativo di venire incontro ai gusti estetici, a volte idiosincratici, dei lettori. Discutibile in linea di principio? Forse. Efficace in termine di risultati? Senz’altro.
Il progetto, avviato da Bloodaxe a inizio 2000, delle antologie Staying Alive, Being Alive e Being Human, che raccolgono nel loro insieme oltre un migliaio di poesie di poeti da tutto il mondo, ha avuto ottimi riscontri di vendita, nei quali il passaparola tra lettori ha giocato un ruolo fondamentale. Ogni antologia ha venduto all’incirca 50000 copie, un risultato quasi inimmaginabile per la poesia. Le antologie successive sono state costruite raccogliendo anche i suggerimenti dei lettori delle prime, e l’agile libretto Essential Poems from the Staying Alive Trilogy che le riassume tutte e tre e dispone i testi in dialogo e quasi secondo uno schema narrativo, è disponibile anche in formato ebook e audiobook. Per non parlare dei poetry-film realizzati su alcuni autori: film dove i testi poetici non sono un di più, un ornamento, ma proprio il fulcro attorno cui ruota la parte audiovisiva. Ecco alcune chiavi del successo.
Certo, i titoli “ruffiani” sono pensati per un pubblico ampio, le copertine - pur non scadendo mai nel kitsch - assomigliano più a quelle dei bestseller piuttosto che ai sobri, monocromi e seriosi libretti di poesia. Eppure, la spregiudicatezza (tale per noi italiani) del contenitore si giustifica non appena, leggendo le pagine, si trovano ottime traduzioni di poeti notissimi (Neruda, Hikmet, Transtörmer), capisaldi della poesia inglese (Eliot, Auden, Larkin) e tantissimi poeti affermati solo localmente. Astley ha letto, senza enfasi e con chiarezza, numerosi testi tratti dall’antologia, e ha lasciato spazio alle domande e anche ad aneddoti che vale la pena riportare qui: ad esempio, che nel Nobel assegnato al poeta svedese Transtörmer hanno giocato un ruolo fondamentale le ottime traduzioni inglesi, che l’hanno reso disponibile a un più vasto pubblico. E sempre a proposito di traduzioni, Astley ha spiegato di accettarne solo da traduttori in stretto contatto con gli autori, e di sottoporle poi a specialisti nella lingua d’origine per un parere sull’accuratezza della traduzione. Il rigore nel proporre testi di qualità, a quanto pare, non è proprio antitetico ad alcune basilari strategie di marketing.
La copertina dell'antologia |
L’attitudine è scopertamente pedagogica: le poesie inserite hanno quasi tutte una grande immediatezza, ma la speranza - che, al netto dei fatti, si sta realizzando - è quella di spingere i nuovi lettori di poesia verso lavori più impegnativi. La funzione dell’antologia - di questo tipo di antologie - è da un lato quella di allargare il pubblico potenziale, dall’altra quella di poter finanziare opere assai più impegnative (e Jeremy Prynne, pubblicato da Bloodaxe nel 2005, è impegnativo come pochi altri, ve lo garantisco). Mi sembra che questo modo di ragionare sia poco presente in Italia, eppure penso che vada incoraggiato, lasciandosi alle spalle i vari purismi che da Croce in poi non ci hanno mai veramente lasciati. A tal proposito, non ho potuto fare a meno di pensare alle polemiche che, in Italia, si infiammano a ogni nuova uscita antologica. Non è qui lo spazio per affrontare tale questione: solo mi sento di dire che questo si realizza perché la comunità dei lettori di poesia in Italia è fortemente specializzata, e l’antologia viene considerata come uno strumento critico di storicizzazione e canonizzazione anziché (anche, e a volte unicamente) un’abile scorciatoia pedagogica per il lettore generico. Fare chiarezza su questa distinzione sarebbe benefico per tutti.