di J.D. Salinger
Einaudi 2008
pp. 248
€ 12
In molti si sono lasciati
conquistare dalla figura di questo dis-graziato ragazzo americano
uscito dalla penna di uno scrittore originale come Salinger. Queste
poche parole non hanno l'intenzione di aggiungere interpretazioni o
di fornire nuovi criteri di ermeneutica o di fenomenologia di un
racconto che ha segnato milioni di lettori ed è divenuto il simbolo
di molteplici realtà sociali e culturali. L'intento è solo quello
di condividere e di evidenziare delle percezioni personali suscitate
dal testo. In questo senso, si propongono tre riflessioni basate su
tre aspetti del racconto di Holden.
Le anatre del Central
Park.
Sembra una pazzia, e anche il protagonista lo ammette, ma continuamente la narrazione
ritorna sulle anitre del Central Park e sulla loro destinazione
durante i freddi inverni newyorkesi. A più riprese Holden domanda e
si domanda che fine facciano le anitre del laghetto quando d'inverno
è ghiacciato. Domanda paradossale per un personaggio che dichiara,
a un certo punto, di sapere che i volatili emigrano nei periodi
freddi. Una domanda semplice, che però a guardarla bene ritorna,
magari con forme diverse, nelle nostre vite di tutti i giorni. Forse
non ci chiediamo dove finiscono le anitre ma ci chiediamo dove sia
finito quel primo amore, o quell'amica o quell'amico che negli anni
non abbiamo più sentito o frequentato. Ci chiediamo dove sono finiti
quei sentimenti che ci hanno afflitto o rallegrato, se sono nascosti
sotto la coltre di ghiaccio dell'indifferenza, verso di noi e verso
l'altro, o se qualche addetto li ha caricati tutti su un camion e li
ha portati via, impoverendo il nostro sentire o
sollevandolo da scomodi fardelli.
Il museo di storia
naturale.
Tutti lo abbiamo
frequentato; e Holden, come ogni bambino che è stato portato in gita
al museo, racconta le sue impressioni. Ne racconta in particolare
una, banale. Salinger, per bocca di Holden, ci ricorda che andando al
museo troviamo sempre le stesse cose nella stessa collocazione; siamo noi a cambiare. E questo, in prospettiva del tutto antropologica, è
una verità imprescindibile. Quante cose affrontiamo ogni giorno allo
stesso modo? Stanno sempre lì, nella loro tradizionale collocazione:
metropolitana, ufficio, scrivania, capi e superiori di qualsiasi
generazione e specie... Ma il tu cambia, gradualmente, e ogni
cosa o persona che, come nel museo, si trova sempre lì acquista un
valore ed un significato differente secondo del proprio percorso di
crescita personale, in base a come quel tu negli
anni è cresciuto, maturato o involuto. Allora viene in mente
l'atleta. Egli anche se non
aspira alle olimpiadi, ogni settimana compie meticolosamente i suoi
esercizi, sempre gli stessi; si allena
ad affrontare giochi, gare, competizioni alle quali verrebbe meno se
non ci fosse quel continuo ritornare sugli stessi movimenti, sui
soliti esercizi. Così la riflessione di Holden fa percepire delle
iridescenze positive nelle nostre consuetudini. La mente e il corpo
crescono e mai una realtà assomiglia ad una altra, a quella di ieri
o a quella di domani, e rendono la vita qualcosa di fronte alla
quale continuare a stupirsi.
La
vecchia Phoebe.
Tra
i diversi personaggi che occupano la scena del racconto di Holden
dopo suo fratello morto prematuramente, c'è sicuramente la sua
sorellina Phoebe. Una bambina che spinge Holden a spiegare il senso
del titolo The catcher in the rye. È
forse questa la vetta del racconto, quando Holden è di fronte a sua
sorella che giustamente viene definita saggia.
Applicare
un racconto alla propria vita, leggere un libro e considerarlo come
una finestra alla quale affacciarsi per sentire spiegare o
interpretare meglio quello che a noi succede, spinge a vedere
l'intervento di Phoebe come essenziale, anche per noi lettori. Dove
si va a cogliere il senso delle cose, o a rilevare una visione pura e
semplice di un'esistenza sempre più complicata? Credo che il
colloquio di Holden con la sorellina ne indichi la strada maestra. I
bambini, e chi ne ha lo ha sperimentato di continuo, nella loro
linearità di pensiero, senza dietrologie e inganni, nel loro
procedere sempre a fin di bene, anche se per il bambino è sempre il
suo bene, sono un
interlocutore che spiazza, radicalmente. Hanno nel loro modo di porsi
una saggezza ed una
sapienza tali perché
senza pretese. Ad affrontare le
domande dei bambini ci si schernisce dietro risposte futili ed
evanescenti, non tanto perché loro non siano in grado di capire la
realtà che noi adulti viviamo ma perché, nella nostra condizione,
non siamo in grado di fornirgli risposte che siano una reductio
ad unum, dirette, che in poche
pennellate vere sappiano presentare uno scenario in cui le
prospettive non sono sviluppate ed i chiaroscuri ancora non sono in
lotta. Parlare con i bambini, alla luce dell'esperienza di Holden,
può essere forse un monito a riappropiarci di una essenzialità che
la società, le amicizie, le mode e le dinamiche del consumo hanno
messo a tacere, una riconquista capace di realizzare una tacita
ribellione contro un sistema di vita che si ferma alla superficie
delle cose. Ed è questo il merito della piccola, saggia Phoebe,
quello di smontare le impalcature, di far calare le maschere ed
arrivare fino al nocciolo, all'essenza del presente facendone
risaltare l'armonica semplicità.
Leggere
Il giovane Holden
diventa un'esperienza, l'occasione per porre l'attenzione su un
universo di valori che il protagonista stesso denuncia e che
l'Autore, con semplicità, descrive ed accenna. E credo che sia in
questi elementi il significato di un successo così ampio nella
letteratura contemporanea.
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