Sono circa le 19 di un piovoso mercoledì 28 novembre, quando al Pavé di Via Felice Casati 27, a Milano, arriva Paolo Giordano. E' il primo incontro dello scrittore con i bookbloggers, e subito si unisce ai nostri festeggiamenti con un cin-cin propiziatorio, che spezza qualsiasi imbarazzo e ci prepara a un paio d'ore piacevolissime a parlare del suo nuovo Il corpo umano, e non solo... Ecco le domande e le risposte un po' riordinate.
Le domande sul libro sono tantissime, dalle fonti scelte da Paolo all'influenza della sua scrittrice preferita Elizabeth Strout, fino alle abitudini scrittorie e alle curiosità. Paolo non si sottrae, anzi!, si racconta volentieri.
Quando come è nato un titolo così efficace e potente?
Davvero la pensi così? Strano, perché mi sto sentendo dire di tutto... Nonostante le critiche, resto convinto del titolo: è nato subito, appena ho pensato a questa storia. Non so spiegare esattamente perché, ma non ho avuto il minimo dubbio che fosse l'unico titolo possibile. Fosse stato così semplice per la scelta della copertina...!
Una ricerca inesausta?
Frenetica, addirittura! Ero alla ricerca di una copertina che esprimesse l'idea del corpo e anche quella di umanità, ma c'erano continuamente immagini fredde... Una sera, sono capitato sul sito di Mirjan Van Der Meer, la fotografa che aveva già preparato la copertina della Solitudine dei numeri primi: ho visto che c'era una cartella intitolata "Soldiers". L'album mi piaceva, ma non trovavo esattamente quel che volevo. L'ho contattata, mi ha spiegato che il soggetto era suo fratello militare, che, per un caso del destino, sarebbe tornato presto in licenza. Da lì, nuove foto, tra cui questa, che esprime esattamente l'idea del corpo (vd. la pelle del braccio), unita all'abbraccio. In più, non mi spiaceva l'idea di una continuità nel passaggio dal primo al secondo libro...
E la trama, invece?
Al contrario della Solitudine dei numeri primi (che, di capitolo in capitolo, non sapevo come sarebbe andata a finire), l'ispirazione per Il corpo umano è arrivata di colpo, e la trama era già delineata. Stavo parlando con un militare, e all'improvviso mi sono accorto che il suo racconto era già strutturato in tre sezioni [come quelle del libro, n.d.r.], e che la storia, poi romanzata, era in sé compiuta. Si è poi trattato di scrivere altre storie, da intrecciare, ma la struttura c'era. Ho trovato davvero divertente scrivere un romanzo corale, intrecciare storie a più stratificazioni, cioè che oltre il grado zero della lettura ci sono tanti sotto-livelli che neanche tu sai di aver scritto!
Quanto ti ha influenzato il viaggio in Afghanistan, da cui è nato questo forte video che da mesi è sul tuo sito?
Certamente ha contato, ma non tantissimo, anche perché, per varie vicissitudini, tra cui fenomeni atmosferici, siamo stati costretti a girare in video in tempi molto compressi, poco più di una giornata al campo. Più che interi personaggi, mi sono rimasti in mente singoli gesti, immagini e, senza dubbio, il paesaggio. In ogni caso posso dire che i contingenti in Afghanistan vivono molto peggio di quanto siamo abituati a immaginare: le razioni di cibo sono portate in modo discontinuo, spesso si vive a scatolette, e le condizioni igieniche lasciano a desiderare, decisamente... Per non parlare delle possibili intossicazioni alimentari... Nel libro ce n'è un esempio...
Ecco, pensando a questo e ad altri particolari, potremmo dire che il libro racconta verità scomode, e lo fa con un linguaggio adatto al contesto di abbrutimento. Cosa ne pensi del linguaggio politicamente corretto per cui si battono in tanti?
Certe realtà non si possono raccontare con un linguaggio politicamente corretto, ne sono convinto. Non tutti la pensano così: figurati che un lettore mi ha scritto una mail per lamentarsi che ricorre troppe volte la parola "cazzo", ma in bocca al generale non potevo mettere parole diverse. Che senso avrebbe scrivere in modo politicamente corretto?! Non sarebbe credibile. E poi, romanzi deliberatamente pieni di buone intenzioni sono quasi illeggibili! Per non parlare dei romanzi che hanno la pretesa di insegnare qualcosa...
Gloria Ghioni e Paolo Giordano #Pavé (Milano) |
A tal proposito, molti hanno riscontrato nel tuo libro l'assenza di un'ideologia e, in generale, una posizione sfumata nei confronti dei militari all'estero...
Lo so, e l'ho fatto apposta: più che una posizione netta volevo esprimere i miei tanti dubbi. Come ho precisato più volte, questo libro non voleva essere un romanzo di guerra, ma un romanzo sulle tante declinazioni di guerra che ognuno di noi vive. Per assurdo, poteva anche non essere ambientato dentro la fob, ma in un altro ambiente ristretto, che costringesse i personaggi a mettere a nudo i propri conflitti interiori.
E altri hanno limitato l'indagine sul tuo libro a una tipizzazione sterile dei personaggi... Ad esempio, che idea emerge delle donne? Migliore o peggiore di quella dei soldati?
Né migliore né peggiore, direi. Volevo scrivere un libro dedicato a come il maschile guarda e si relaziona al femminile. Era un libro che ho pensato dedicato a lettrici (in primis la mia compagna!). Sarà il fatto che uno, arrivato a trent'anni, riflette molto sul fatto che i rapporti devono evolvere e maturare. Poi, certo, sono arrivati gli altri temi...
Tra cui l'importanza del corpo, nella sua materialità, non è vero?
Sì, ho scoperto in questi anni che il corpo ha una sua saggezza. A lungo non ci avevo pensato, ma in qualche modo è anche preveggente. Anche così, in fondo, si spiega l'incidenza forte di sintomi psicosomatici nei soldati (primo fra tutti, il tenente Egitto).
Se dovessi indicare una sorpresa di questo libro...
... direi il maresciallo René: l'ho aspettato per quasi due anni, poi il personaggio è arrivato, e credo che possa essere la storia più umana del romanzo.
L'autografo di Paolo a Gloria |
Bene, a proposito dei tuoi personaggi, non ti spiace farli morire?
(Paolo sorride) Sì, decisamente. Però cerco di non pensare che li sto facendo morire (e non sveliamo chi, dove e come!), ma penso che la morte faccia parte di una delle tante trasformazioni narrative che posso dare loro. E, in ogni caso, mi affascinava molto, mentre scrivevo, l'idea di una morte senza epifanie, senza epica, del tutto imprevedibile.
Senti, Paolo, mi permetto una domanda un po' curiosa, forse: che rapporto hai con i finali? Te lo chiedo perché alla fine della Solitudine ho provato una profondissima delusione, non riuscivo a capacitarmi che finisse così... O meglio che non finisse proprio... Anche in questo caso temevo che capitasse qualcosa di simile...
Sì, il finale è un trauma, lo ammetto. Non so dire perché, forse per il fatto che non amo chiudere le storie? Figurati che i finali sono anche la cosa che ricordo meno nei libri che leggo! In ogni caso, penso al finale come a una rarefazione, una disgregazione in particelle...
Cosa ci dici invece del tuo rapporto con il mondo editoriale e con la promozione del libro?
(Paolo sorride) Non sono un animale da palcoscenico, mi richiede un grande sforzo. Se fosse per me, mi isolerei molto, come ho fatto dopo la Solitudine. Però capisco bene le dinamiche del mercato librario, che non demonizzo: i libri hanno una vita breve, e siccome credo in questo romanzo, farò quel che è necessario per il suo bene... Con la Solitudine avevo sofferto un po' l'attacco mediatico: essere al centro dell'attenzione non fa per me, sembrava sempre che dovessi confermare il mio diritto a essere lì; ora è diverso: farò quel che è bene per il libro, ma senza mettere in dubbio me stesso. E, appena potrò, cercherò un nuovo isolamento per scrivere...
Credo che tutti siamo divisi, tra il gusto di incontrare Paolo nei media, di chiacchierare con lui, e d'altro canto il desiderio di leggere presto un suo nuovo libro. Nel dubbio, ci godiamo un buon calice di vino, tra foto, sigarette, autografi e una piacevolissima chiacchierata letteraria.
Ringraziamo Paolo Giordano e Mondadori per questo splendido incontro
a cura di GMGhioni
Il sito dell'autore: http://www.paologiordano.it/