Invito alla lettura: Stefano D'Arrigo, "Horcynus Orca"

Horcynus Orca
di Stefano D’Arrigo

introduzione di Giuseppe Pontiggia

Mondadori, 1982 (1975)



La vicenda editoriale e la schizofrenica storia dell’accoglienza o del rifiuto di questo romanzo, la cui curva ideografica va dal capolavoro assoluto della letteratura occidentale all’aberrazione dell’esercizio stilistico, con tutte le possibili modulazioni intermedie, è cosa più o meno nota ed è comunque esterna all’opera in sé, sulla quale, invece, mi pare il caso di soffermarsi. Premetto che su quell’ideale curva ideografica segnerei il mio punto, se non proprio all’apice, di sicuro molto in alto, perché, come ogni altra opera letteraria di grandi ambizioni, Horcynus Orca mostra anche nei difetti, nelle parti meno riuscite, la profondità e lo spessore dell’ispirazione e del progetto che l’hanno dettata. 
Si tratta di un romanzo sfrontato che mira niente di meno che a gettare un ponte tra Storia e Mito (ponte bombardato, come si vedrà), la cui mole, densità e qualità finiscono per intimidire, per tenere un po’ ai margini il lettore comune. Un romanzo di ardua lettura, ostico, non accondiscendente rispetto allo stesso lettore: non lo culla, non lo adula, non lo intrattiene benevolmente, tenendosi lontano e sdegnoso dai dettami dell’industria culturale (almeno di quella attuale) o dell’immediata relazione tra autore, stile, materia narrativa e lettore, non c’è, insomma, la ricerca dell’empatia, (o “compietà”, come direbbe lo stesso autore). Eppure è un romanzo di cui si percepisce fin da subito il soprammercato di significato, di senso: non c’è parola, frase, episodio che non rimangano stampati nella mente, che non la infiammino, sia nel senso di farle vedere e sentire qualcosa in più rispetto al comune vedere e sentire, sia nel senso patologico di farla sforzare verso quel di più, di farcela estenuare e stordire. 

‘Ndrìa Cambrìa, dopo l’8 settembre del ’43, è un marinaio della fu Marina Regia che, sbandato, intraprende il viaggio di ritorno a casa da Napoli a Cariddi sulla punta siciliana dello Stretto di Messina. È il classico viaggio di ritorno dell’eroe dalla guerra: l’evidente riferimento immediato è l’Ulisse omerico, letto però con la lente distorcente dell’Ulysses joyciano. L’eroe di D’Arrigo ritrova un mondo devastato materialmente e spiritualmente, definitivamente altro rispetto a quello che aveva lasciato; un mondo nuovo, allucinato e orribile che gli si manifesta per “arcana e enimmata”: gli incontri, i discorsi che si sente fare, i fatti cui assiste e partecipa non sono più inquadrabili dentro le coordinate esistenziali che l’avevano visto crescere e farsi uomo, ma devo essere rivisti nella penombra di nuove coordinate che stentano, però, ad apparire, a farsi chiare. Ma in quanto eroe ‘Ndrìa non si rassegna, soffre e lotta per far rivivere il mondo com’era, si oppone ostinatamente a quello nuovo e sconosciuto, vorrebbe fare della Storia una parentesi vinta e reinglobata nel Mito. Un eroe che l’autore, già al di là di quella storia, già conscio dell’irrimediabile trasformazione, vota alla sconfitta. Compito, allora, dell’opera letteraria è quello di ricostruire, mostrandole nel loro formarsi, rendendole sensibili, non sociologicamente o storicamente astratte, le ragioni di quella sconfitta. 

Horcynus Orca è tutto ciò che si vorrebbe avere da un’opera letteraria: la peculiarità (ecceità, si direbbe in filosofia) dell’approccio artistico al mondo; la creazione di un mondo linguistico del tutto originale che riprenda daccapo il tentativo di ricostruire la trasparenza tra parola e cosa; uno sguardo che faccia della realtà solo una delle mille altre possibilità che stanno sotto o dietro ad essa; un rapporto dinamico e non convenzionale con la tradizione letteraria, rivissuta e ripresa non al solo scopo citazionistico, ma come base di partenza per dire il nuovo, l’inedito modo di stare al mondo dell’artista e della comunità della quale è, o si sente, parte e rappresentate, scontandone, al contempo, il privilegio con il disagio esistenziale. Eppure, in D’Arrigo tutto ciò è all’eccesso, allo stremo, sempre sul punto di rompere il legame con la comunità: la sperimentazione linguistica, la spinta verso i limiti estremi della rappresentazione, in talune parti dell’opera, è tale da dare l’impressione di essere un’opera scritta da un letterato per letterati, solo per chi, cioè, ha gli strumenti culturali per appropriarsene, a dispetto del fatto innegabile che la materia narrativa e il punto di vista siano o popolari o astoriche, ossia al di qua di ogni categorizzazione storica e sociale. Cionondimeno, sono proprio quelle parti dell’opera, in particolare il lunghissimo episodio per il quale, grazie ad un occhiolino “trucchigno” e ad una frase sillabata quasi all’infinito e, di fatto, non terminata di uno dei pescatori più in vista di Cariddi, il “pellesquadra testaricca” Luigi Orioles, ‘Ndrìa si rende definitivamente conto di quanto la guerra abbia alterato e degenerato la mentalità del borgo di pescatori, proprio quell’episodio, tutto giocato sul confronto con la dilatazione dell’attimo joyciana e che è una sorta di imitazione-parodia-subissamento della poetica dell’epifania dello scrittore irlandese, fa risaltare la stringatezza narrativa, l’efficacia rappresentativa del finale, nel quale il nuovo mondo e il nuovo modo di guardare al mondo si installano per sempre nella coscienza del lettore.

Se non fosse che la prosa di D’Arrigo è più citata che letta e che negli ultimi quarant'anni è stata quasi rimossa dal comune sentire e dalla comune cultura letteraria italiana, sarebbe quasi superfluo indicarne, sebbene succintamente, i caratteri più specifici. La prosa di D’Arrigo è talmente personale e accuratamente costruita da essere immediatamente riconoscibile, al punto che può essere pasticciata o parodiata, ma non imitata. Sul piano dello stile in senso stretto, del lessico e della sintassi, per intenderci, è una prosa espressionistica, fondata sul plurilinguismo, sul continuo scarto rispetto alla norma, sull’invenzione, sull’allitterazione, sulla mescidazione e sul sempre presente e operante scivolamento verso l’espressione poetica. Sul piano sintattico è una prosa che, in specie del discorso diretto e nell’indiretto libero, ha una stupefacente capacità di ricostruire il tono e il ritmo della parlata dialettale, senza però ricorrere direttamente al dialetto: niente di più falso di un D’Arrigo che scrive in siciliano arcaico. D’Arrigo scrive nella lingua di D’Arrigo, che, man mano, senza bisogno di glossari o grammatiche specifiche, entra nella mente del lettore, perché è una lingua che si costituisce nel momento in cui si manifesta. Sul piano delle figure e della composizione, la prosa di D’Arrigo è fondata dal principio della metamorfosi, di cui la metafora è uno dei principi operativi, assieme a quello più peculiare dello scrittore della sovrapposizione/dissolvenza. La realtà, il dato oggettivo, l’episodio, il fatto, sono continuamente sottoposti ad un lavorio di lenta macinazione e determinazione che ne mette sempre in dubbio la consistenza e l’affidabilità. Il presente è accerchiato dal passato, ne cambia i connotati, li rende incerti e indefinitivamente interpretabili. Anche i dati più oggettivi, come la statura e l’età dei personaggi, possono trasformarsi a seconda della percezione di chi li guarda, possono confondersi con quelli del passato e posso essere ri-determinati in base allo stato d’animo, ai pensieri e all’immaginazione. La tensione espressionistica fa sì che il lettore abbia la sensazione che il mondo immaginato e creato da D’Arrigo si formi là sulla pagina e che la convenzionalità del linguaggio venga superata nella continua risemantizzazione etimologica delle parole (e si vedano ad esempio la nascita dei nomi, dei soprannomi e dei vezzeggiativi dei vari personaggi). Un aspetto particolarmente evidente e significativo dello stile di D’Arrigo e che emerge nella micro e nella macrostruttura, è l’emersione subitanea e irrelata di una parola o di un fatto che solo in un secondo momento viene riportata alla sua origine, all’essere effetto di una causa e reinserita in una struttura sintattica che la avvolge, ne scioglie, nella comunicazione letteraria, l’apparizione improvvisa. Come se, “percosìdire”, un grumo irrisolto, un cuneo affondato dentro la realtà, si presentasse nell’immediato come tale e poi venisse reso fluido, impastato e aggregato alla realtà stessa. La prosa di D’Arrigo è un continuo macinare «uno per uno i cogiti pietrosi». La realtà è sottoposta ad un inesausto processo di solidificazione e fluidificazione. 

Come ogni grande opera letteraria, Horcynus Orca è un mondo a parte, autoreferenziale e autosufficiente, i cui rapporti con il mondo esterno e la realtà, rimanendo pressoché invisibili a occhio nudo, dicono di questa molto di più e molto meglio di quanto farebbe un’opera che ne facesse il referente diretto. Il grandioso apparato espressionista approntato da D’Arrigo è un’immensa maschera che ha la funzione di secernere la Verità dell’artista e della letteratura. E il tema della finzione come maschera per dire la verità è espressamente introdotto dallo scrittore in più punti dell’opera: nell’ampia digressione sulla differenza tra “faccitta” e “faccia da vaiolo”, per cui la “faccitta”, il viso falso delle buone maniere o dei rapporti sociali copre la “faccia da vaiolo”, quella delle sofferenze e delle ferite della vita, ma alla fine, a ben guardare, la “faccitta” convenzionale è più vera della “faccia da vaiolo”; quando Marosa per manifestare a ‘Ndrìa la sua attesa, l’ansia per il suo ritorno e l’inquietudine per una nuova partenza non può che riprendere, trasformandolo in base al contesto, il mito di Penelope e della tela diuturnamente fatta e disfatta; ma è soprattutto nella stupenda rappresentazione dei rapporti intimi tra Caitanello Cambrìa e l’Acitana (i genitori di ‘Ndrìa) che il tema della maschera come verità trova tutto il suo spessore: solo nei fantasmagorici panni di Granvisir (l’uomo) e Masignora (la donna) i due possono esprimere e manifestare l’immenso amore che li unisce, di cui il reciproco piacere sessuale è la sublimazione. 

Nel mondo di D’Arrigo, un mondo di elementi primordiali, di dittologie fondamentali (mare/terra, realtà/finzione, passato/presente, individuo/comunità, ecc.), la vita e la morte si affrontano e si sostengono reciprocamente a mani nude, senza intermediazioni culturali.  È un’opera che può essere letta secondo le più disparate chiavi di lettura, simboliche, allegoriche, sociali, politiche, ecc., ma che è innanzitutto un grandioso progetto letterario, una specie di “riesumo” dell’epica (da Omero a Joyce passando per Dante, Ariosto, Melville, Hemingway e quant’altri) rivissuta come approccio specificatamente letterario al mondo. Quella di D’Arrigo è un’epica nella quale la lancetta del manometro è costantemente orientata verso il nero della morte, e talvolta sembra perdere quell’equilibrio, quella compresenza tra fatalità tragica e rinascita vitale che è una delle peculiarità del movimento epico. È un’epica nella quale il Mito, il tempo ciclico di morte/rinascita è come assassinato dalla guerra: la Storia è la devastatrice del Mito.

Paolo Mantioni