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La collina del vento: Abate vince col romanzo familiare

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La collina del vento

di Carmine Abate

Mondadori, 2012


pp. 260
cartaceo € 17.50
ebook € 9.90

Non gli fu difficile scegliere dove costruire la sua nuova città perché i luoghi ti attraggono come le persone, ti seducono con il loro sguardo luminoso, la lingua di vento, il profumo mai sentito prima. (75)
Il luogo è il Rossarco, forse una volta Krimisa, colonia della Magna Grecia fondata da Filottete: un promontorio che porta con i suoi ulivi e le sue sterpaglie l'eredità dolce-aspra della calabresità atavica. Quanto si può lottare per conservare i suoi profumi, la sua fisionomia così riconoscibile contro i mutamenti del tempo e l'intervento dell'uomo predatore? Tanto, e la famiglia Arcuri lo sa bene, di generazione in generazione: il Rossarco deve restare così come è stato trovato, per quanto la Storia possa invadere - e parliamo della storia delle grandi guerre, ma anche dell'archeologia che vuole accertarsi della presenza di Krimisa, a costo di distruggere la collina. 
Se i Malavoglia avevano il nespolo, agli Arcuri resta un'intera collina a rappresentare la fatica, il lavoro ma anche la cura e i momenti felici della famiglia, nonché motivo di forza e immagine ricorrente quando i protagonisti sono lontani: 
E se qualcuno gli chiedeva come fosse accaduto il miracolo, come avesse resistito nell'inferno delle trincee, Arturo rispondeva senza esitare, ma con un velo d'ironia nello sguardo: "A parte i genitori, ho pensato notte e giorno alla nostra collina. Non potevo morire. Dovevo tornare vivo, dovevo, macàri ferito ma vivo, per sentire ancora il suo profumo" (23). 
Tuttavia il Rossarco non è solo luogo incantato della memoria, ma nasconde il terribile segreto con cui si apre il libro: un duplice assassino, poi occultato sotto la terra compiacente del Rossarco. Il mistero serpeggia di generazione in generazione, senza che mai si sveli; talvolta riemerge tra le domande della famiglia, che lo crede destinato a restare nella sfera dell'irrisolto. 
Come le rovine archeologiche, a riprova della Storia, anche la Verità trova la sua via per svelarsi e per liberare finalmente gli animi di chi sapeva:
E più raccontava e più si rasserenava, come se finalmente potesse liberarsi di zavorre insopportabili o trovasse, nelle storie, le motivazioni e la forza per separarsi da Spillace. (14)
Per rendere il chiaroscuro continuo della verità e della giustizia, nonché i movimenti dalla Storia alla realtà familiare, Abate sceglie un narrare per stratificazioni. Come la collina del Rossarco nasconde sotto le sue zolle secoli di rovine, così la famiglia Arcuri testimonia la propria vicenda nelle voci del nonno, del padre e del nipote.
I piani temporali sono significativamente intrecciati, non solo a smuovere la narrazione dalla linearità cronologica, ma a verificare l'unione di intenti, i destini tutti diversi eppure mossi dagli stessi valori. I passaggi temporali, che testimoniano appunto il "sempre uguale - sempre diverso", sono garantiti dalla collina che, con il suo doppio nome di Rossarco e Krimisa, autorizza una visione di storia ciclica e, per certi versi, l'illusione della resistenza stoica davanti ai mutamenti. 
Il senso di appartenenza forte alla terra, al paese, prosegue anche a distanza, come in molti altri romanzi di autori calabresi (si pensi, per fare un nome, a Corrado Alvaro e ai suoi giovani contadini, costretti ad allontanarsi per cercare lavoro o per studiare, sempre però legatissimi alle origini). Non sorprende allora che la calabresità, marcata linguisticamente nelle battute di dialogo, entra talvolta nella narrazione (d'altra parte gestita da un io-narrante della famiglia Artusi), non tanto a livello sintattico ma con prestiti o calchi lessicali che, di certo, non rallentano né complicano la lettura. 

Per scelte narrative e linguistiche, questo grande romanzo familiare sembra instaurare una sottile polemica, tutta sotterranea e implicita, con tanti narratori della contemporaneità: davvero si può scrivere, oggi, solo denunciando l'assenza di valori del presente? Al contrario, Abate propone un'idea di stoica resistenza di una famiglia che, pur immersa nel Duemila, vivifica i valori tradizionali: non un "ideale dell'ostrica" di verghiana memoria, ma un progressivo riconfermare la validità dei valori anche nell'affrontare il presente. Vincitore del Campiello 2012, il romanzo può accostarsi per tematiche e afflato a un'altra saga familiare - forse più commossa e lirica -, Nel tempo di mezzo di Fois (tra i finalisti dello Strega e dello stesso Campiello). Sarà un caso che quest'anno siano tornati  (e meritatamente premiati) i grandi romanzi familiari? 

Gloria M. Ghioni