Patrizia Valduga: La tentazione

La tentazione
di Patrizia Valduga
Crocetti, Milano 1985


Nel 1985, il poemetto La tentazione[1], che intervalla Medicamenta e Altri medicamenta (qui l'invito alla lettura) manifesta un «uso maniacale, patologico, terrorizzato delle parole come materiali, come residui della coscienza […] e dell’anima».[2] Vi torna l’interrogativo sulla congerie di desideri antinomici che affollava la poesia precedente: l’incessante dinamica di desiderio e ritrosia, «tutta in avanzare e retrocedere»,[3] è supportata dalla terzina dantesca, che consente al poemetto di proseguire potenzialmente all’infinito. L’omaggio alla Commedia prosegue con l’attacco «In questa maledetta notte oscura» (13), in cui la ripresa di Inf. I denuncia da subito la tetraggine notturna e il maledettismo in cui s’ambienta questa furibonda visione onirica di possesso e sopraffazione. La «lamentazione sulla veemenza e insostenibilità della passione amorosa»[4] muove da uno stupro di gruppo, che annienta i valori e la pudicizia iniziale: la materialità estrema degli uomini, che ordinano oscenità senza remore, è combattuta dalla reticenza della donna, che non nomina direttamente parti anatomiche o pratiche sessuali. La comunicazione è dunque squilibrata: al silenzio verbale e al gorgo di pensieri della donna si oppone la sequela incalzante di pretese maschili, private della dimensione psicologica. Al contrario, la minuziosa descrizione degli atti è didascalia ed educazione al piacere, per condurre la donna all’accettazione del suo evidente godimento:
“Vedi come veloce in te m’inventro,
vedi come lo vuoi e tieni tutto,
vedi che piangi umore dal tuo centro…
  ecco rientro, e coli dappertutto.
 Via di qui, voi, che più non mi resiste,
in piacere si volta il suo gran lutto”. (15-16)
Nella seconda parte, il dialogo dell’«anima confusa» col suo cuore ribadisce la dicotomia insanabile tra ragione e passione, nonché la concezione dell’amore fisico quale «agguato, a tradimento», un tassiano «occulto inganno» (19). L’incupirsi del poemetto fa sì che non ci siano tentativi di dialogo: le suppliche iniziali si stornano in maledizioni contro gli uomini e invocazioni di pietà alla notte, unite a un moto d’invidia per i morti. L’avvertimento della consunzione esistenziale, ripresa forse più leopardiana che lucreziana, permea il poemetto di cromatismi scuri e sanguigni. Dalla disperazione del presente, la donna prende di coscienza dell’inesorabile fuga del tempo: unica speranza di conforto, incerta ma pur presente, è ritrovarsi l’uno nell’altra:
«Ti voglio qui, ti voglio adesso,
chiudi la bocca e vieni qui, Dio buono,
per ricrearti e ricrear me stesso
 perché non mi ricordo più chi sono». (40)
Tuttavia, Eros cede il posto a Thanatos dal VI canto, in una visione apocalittica che assegna importanza al carpe diem erotico. Solo così si legittima la gelosia, unita a un voyeurismo impotente, con elementi blasfemi (quale «mangia questo in memoria di me», 50; o «Dio non violenta e tu vuoi violentare?», 51). Il possesso che «e ti snerva e ti spolpa e ti disossa» è ormai totale alla fine della notte, quando l’amante definisce l’io-lirico «amore santo». La sperequazione del sentimento persiste, fino al concerto tra l’amante e l’io-lirico nella chiusa: il sangue è autentico oggetto di scambio con la donna, che si scopre essere chiusa nella tomba, e prega di non restare prigioniera dei suoi sensi, in vista del confortante annerarsi finale.

Gloria M. Ghioni



[1] P. Valduga, La tentazione, Milano, Crocetti, 1985. L'opera è stata poi acclusa alla fine di Cento quartine e altre storie d'amore, Torino, Einaudi, 1997. 
[2] Franco Cordelli, Introduzione, in P. Valduga, La tentazione, cit., 7.
[3] Ivi, 8.
[4] R. Galaverni, Nuovi poeti italiani contemporanei, cit., 160.