Giuseppe Gioacchino Belli è unanimemente considerato il poeta di Roma. La sua sterminata produzione poetica, che conta oltre duemila sonetti, regala infatti un indimenticabile, irriverente ritratto dell'Urbe nel "secolo-decimonono" (una Roma ancora papale - siamo nella prima metà dell'Ottocento - piena di grandi contraddizioni) ma anche una precisa testimonianza: di una poesia che, scritta in vernacolo romanesco, è stata spesso definita "popolare", ma che merita i dovuti distinguo, perché è opera di un autore cólto che usa il dialetto per uno scopo preciso:
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene un'impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza.
La dichiarazione, contenuta nell'introduzione ai Sonetti, vale un piccolo commento. Essa indica, prima di tutto, una scelta dialettale pienamente consapevole: i sonetti di Belli, dunque, rientrerebbero in quella che Benedetto Croce ha definito "letteratura dialettale riflessa", ossia un uso letterario del vernacolo che intende sovvertire dall'interno, con l'arma della lingua, il sistema codificato dei generi (poesia, narrativa, epica, tragedia, commedia) e quello delle forme (il sonetto, per esempio), e approfittare di questo straniamento per creare un varco d'ingresso per nuove declinazioni del reale. Difatti, il risultato del lavoro poetico di Belli è un monumento: termine che indica, nel lessico della storiografia tradizionale, la testimonianza artistico-letteraria (mediata dalla consapevolezza estetica di chi l'ha composta) in opposizione al documento, che è invece la testimonianza diretta, non mediata da alcun fine artistico (un archivio di compravendite, i resti di una casa).
I sonetti di Belli sono un risultato stupendo proprio perché, partiti da queste premesse, non sono artefatti né stantii, ma, al contrario, posseggono ancora la loro vis satirica e, a distanza di quasi due secoli, una loro vivace attualità:
Il realismo estremo di Carlo Porta [poeta dialettale milanese, ndA] e Giuseppe Gioachino Belli (...) dimostra bene quale apporto può venire dall'ingresso nelle aule dei versi in dialetto. Ringhiere, botteghe, sale da ballo, fiere, loggioni. Pescivendole, caffettieri, preti, madame, vinai. Immersi in scenari pullulanti di vita, gli eroi di Porta e Belli sono i primi plebei della nostra letteratura a raccontare in prima persona, senza pudori, le proprie vicende, e a giudicare dal basso le azioni dei potenti.
Mauro Novelli, La poesia dialettale
Ecco tre piccoli assaggi, dedicati, rispettivamente, alle polemiche contro il papa e lo sperpero della Chiesa, alle pratiche religiose ormai vuote di fede e, dulcis in fundo, al tema della meritocrazia. A voi lettori il piacere di misurarvi con l'attualità di queste piccole perle:
Er Papa ride? Male, amico! E' segno
Ch'a momenti er zu' popolo ha da piagne!
Le risatine de sto bon patrigno
Pe noi fijastri sò sempre compagne.
Ste facciacce che porteno er triregno
S'assomijeno tutte ale castagne:
belle de fora, eppoi, peddìo de legno,
muffe de drento e piene de magagne.
Er Papa ghigna? Ce sò guai per aria:
tanto più ch'er zù ride de sti tempi
nun me pare una cosa necessaria.
Fiji mii cari, state bene attenti.
Sovrani in allegria sò brutti esempi.
Chi ride cosa fa? Mostra li denti.
(17 novembre 1833)
La riliggione del tempo nostro
Che rriliggione! è rriliggione questa?
Tuttaquanta oramai la riliggione
Conziste in zinfonie, ggenufressione,
Seggni de crosce, fittucce a la vesta,
Cappell'in mano, cenneraccio in testa,
Pessci da tajjo, razzi, priscissione,
Bbussolette, Madonne a 'ggni cantone,
Cene a ppunta d'orloggio, ozzio de festa,
Scampanate, sbasciucchi, picchiapetti,
Parme, reliquie, medajje, abbitini,
Corone, acquasantiere e mmoccoletti.
E ttrattanto er Vangelo, fratel caro,
Tra un diluvio de smorfie e bbell'inchini,
È un libbro da dà a ppeso ar zalumaro.
(11 ottobre 1835)
Er Merito
Merito dite? Eh poveri merlotti!
Li quadrini, ecco er merito, fratelli.
Li ricchi soli sò bboni, sò bbelli,
sò ggrazziosi sò ggioveni e ssò ddotti.
A l'incontro noantri poverelli
tutti schifenze, tutti galeotti,
tutti deggni de sputi e de cazzotti,
tutti cucuzze in càmmio de scervelli.
Fa' ccomparì un pezzente immezzo ar monno:
fussi magàra una perla orientale,
presto cacciate via sto vagabbonno.
Tristo chi sse presenta a li cristiani
scarzo e ccencioso. Inzìno pe le scale
lo vanno a mmozzicà puro li cani.
(3 aprile 1836)