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Raccontare per salvare e salvarsi: I frutti dimenticati di Cristiano Cavina

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I frutti dimenticati

di Cristiano Cavina

Marcos y Marcos, 2008





Cristiano Cavina è nato a Casola Valsenio in provincia di Ravenna, paese dei frutti dimenticati. Pere volpine, mele delle rose, giuggiole, sorbe. Nomi che non dicono molto, ma ogni terzo fine settimana di ottobre vengono ricordati in una festa affinché almeno un po’ rimangano nella memoria dei visitatori.
Ed è nel paese dei frutti dimenticati che Cavina costruisce una storia, in parte autobiografica, che intreccia ricordi d’infanzia, scoperte inaspettate e nuove gioie. C’è nel suo romanzo I frutti dimenticati un’urgenza, un’ansia di fissare quei momenti che accompagnano la vita di ogni uomo, ma che non tutti hanno il coraggio di guardare in faccia. Cavina mette in gioco se stesso, le sue colpe ma richiama anche quelle degli altri.
Si parte da un’infanzia trascorsa con la madre e i nonni senza un padre che ha pensato bene di andarsene quando scopre che la fidanzata  aspetta un bambino. Questo padre piomba con un espediente nella vita del figlio e lo fa con egoismo, lo stesso egoismo che trentatré anni prima l’aveva spinto ad andarsene. Il motivo è una malattia oramai terminale. Vuole unire i tasselli della sua esistenza, forse ripulirsi la coscienza con prepotenza, mettendo il figlio davanti a una scelta, non permettendogli di tirarsi indietro, obbligandolo a dargli una possibilità.

Un’esperienza che acquista ancora più valore e insieme dolore perché quel padre appare quando tu stai per diventare padre e anche tu di errori ne hai fatti. Sai di non amare più la tua compagna, Anna, un’anima pura incapace di fare del male che si renderà presto conto di provare lo stesso per te.

“Mi ami ancora?” chiedeva.
All’inizio della nostra storia quella domanda era una specie di gioco segreto a cui io ero felicissimo di rispondere.
“Certo che ti amo” le rispondevo “nessuna è mai riuscita a farmi lucidare le scarpe tante volte come te. Mi piace lucidare le scarpe. Credevo fosse impossibile e invece mi piace lucidare le scarpe. Vuol dire che ti amo.
All’improvviso era diventata una domanda con pressione da abisso oceanico.

Una gravidanza difficile, piena di imprevisti e il rischio che il bambino non ce la possa fare. Ma alla fine Giovanni nasce ed è tutto un ricominciare, un ritornare a respirare, un motivo per cui ripartire. Ed è proprio pensando al suo bimbo che Cavina scrive le parole  più vive e disarmanti, quelle che fanno sinceramente commuovere.

Sentii la sua presenza dentro di me.
Il suo sangue era terriccio fertile che scorreva nel mio, come se lui avesse fatto nascere me.
C’era una catena lunghissima a cui eravamo collegati, formata da anelli che uno dopo l’altro, a ritroso, si perdevano in secoli oscuri; lui si era agganciato a me, e la stava trascinando avanti.
Ebbi la consapevolezza della forza di questa creatura minuscola nelle mie vene, nel balzo verso il futuro che aveva fatto fare a questa lunga catena.
Era un attrezzo allentato, in certi punti, arrugginito, ammaccato, ma che adesso, nella cima che contava, era completamente nuovo.
Tutta la fatica, i fallimenti, le disgrazie, l’estinzione dei Creonti e secoli di Cavina ormai sepolti avevano ora uno scopo.

Nel mezzo del romanzo pagine di episodi di un’infanzia genuina, ricca e spensierata, anche senza un padre: l’affetto dei nonni, i compagni di giochi, la scuola materna dalle suore orsoline con il      sorvegliatissimo orto dei frutti dimenticati. Casola è essa stessa protagonista del romanzo con i suoi frutti che ogni anno vengono ricordati, come in un rito. Il romanzo di Cavina è un po’ un voler conservare e celebrare tutto quello che altrimenti rimarrebbe un ennesimo frutto dimenticato. E forse è questa l’essenza del raccontare: immortalare come in un’istantanea, salvare, e se ci riesci è per sempre. Cristiano Cavina lo sa fare, è uno di quelli che sa costruire ponti, come scrive Massimo Cirri nella prefazione del libro.
Un uomo che diventa padre quando incontra per la prima volta il suo, quando può finalmente rimproverargli la sua vigliaccheria ma decide di perdonarlo, comunque. Un libro che è un percorso verso la consapevolezza, ma che a differenza di molti non finisce con chissà quale clamorosa rivelazione. La scoperta del protagonista è molto più delicata, sottile, normale perché, si sa, non si cambia così, da un giorno all’altro. È la coscienza di chi sa che di strada ce ne è ancora da fare: “Sono un vecchio palombaro fortunato” scrive in conclusione. “Ho sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare. Seguo la rotta opposta a quella di mio padre. È sempre stato così, da quando sono nato. Ho bisogno di una vita intera, solo per cominciare a chiedere scusa”.
Scrivere dei Frutti dimenticati non è semplice, almeno per me non lo è stato, perché più che un libro è un pugno dritto in faccia, ti stordisce, ma ti risveglia al tempo stesso. 
Dedicato a tutti quelli che hanno voglia che di riprovarci.