di Umberto Eco
Bompiani, 2010
pp. 523
19,50 €
Dal suo esordio nel 1980 con Il nome della rosa Umberto
Eco ha sempre ostentato, in maniera più o meno palese, una narrativa di
genere ibrido, a più livelli di lettura, che si adattasse ad un
pubblico estremamente variegato per estrazione sociale e cultura
personale, non trincerandosi dietro leziosità tanto erudite quanto
inutili e di non immediata comprensibilità. Ogni libro di Eco risulta
così essere una miniera, a cui si può attingere anche solo scavando a
mani nude, fermo restando che concede parecchie soddisfazioni a chi
voglia cimentarsi a più elevate profondità; libri, insomma, la cui forma ideale sarebbe quella dell'ipertesto, infarcito di link per verificare le fonti utilizzate dall'autore, se non anche per ricavare informazioni più dettagliate. Il cimitero di Praga non costituisce alcuna eccezione in tal senso.
Tutto l'impianto narrativo si regge su una dicotomìa di fondo, tanto presente da passare inosservata, tra realtà e finzione.
– Sia chiaro, caro Simone, gli spiegava, passato ormai al tu, io non produco dei falsi, bensì nuove copie di un documento autentico che è andato perduto o che, per banale accidente, non è stato mai prodotto, ma che avrebbe potuto e dovuto esserlo.
(U.Eco, Il cimitero di Praga, pp.104-105)
Data
l'ambientazione di fine Ottocento, l'unico personaggio di una certa
rilevanza completamente inventato è il protagonista, Simone Simonini,
notaio e falsario (ad un'antichista l'assonanza con il celebre
Kostantinos Simonidis non passerà inosservata anche se completamente
casuale). Tutti i restanti personaggi che si alternano nell'intreccio
(Garibaldi, Nievo, Dreyfus, Lagrange, Taxìl ecc...) sono reali e fanno
ciò che hanno fatto nella realtà storica. Il falso viene interpretato
come il processo di alterazione della realtà affidato alla parola
scritta. Primo gioco metaletterario: il protagonista, falsario,
raccoglie da romanzi e dicerie informazioni su cui redigere documenti
compromettenti; Eco raccoglie informazioni da fonti storiche per
costruire un romanzo. In entrambi gli artefatti c'è esattamente ciò che
può apparire credibile al proprio pubblico di lettori, ossia notizie che
hanno già conosciuto in precedenza una certa diffusione. Eco, però, fa
di più: per evitare qualsiasi identificazione con la sua creatura crea
un sistema di tre personae loquentes che si alternano alle redini
della narrazione, addirittura distinte graficamente attraverso l'uso di
un tipo di carattere diverso al momento della stampa. C'è da dire che
il confine tra queste tre figure è labile, forse marcato dal solo uso
della terza persona del Narratore vero e proprio che finge di ritrovare i diari del notaio Simonini e dell'abate Dalla Piccola, suo alter ego,
i quali a loro volta si esprimeranno in prima persona. E se mentre
Dalla Piccola e Simonini si risolveranno in un unico personaggio verso
la fine del romanzo, il Narratore rimane a parte, un tramite per il Lettore, ma immancabilmente ambiguo e sornione, su cui nulla ci è dato sapere.
L'occasione
narrativa, come accennato, è costituita dal ritrovamento e successiva
riproposizione pedissequa quando non riassunto dei diari di Simonini e
Dalla Piccola. Secondo gioco metaletterario: scopri cosa è falso e cosa è
vero. I diari sono assolutamente (anche se non fosse stato già ammesso
dall'autore) un falso letterario. Ciò che tradisce la composizione
moderna di questo romanzo è l'architettura perfettamente geometrica, ma
ancor prima la lingua, meravigliosa, ma poco credibile messa in bocca ad
un personaggio di fine Ottocento. Ma questa, che altro non è che
convenzione scenica, è a pieno vantaggio di una più piena fruibilità del
romanzo.
Per quanto riguarda l'organizzazione del materiale
tutto è pensato in un'ottica quasi musicale. Esso viene esposto in
maniera lineare e coerente, con un unico filo narrativo, con accenni di
nomi che poi si evolvono come cellule tematiche che pian piano arrivano
ad avere una esposizione ed autonomia proprie. In questo ambito è da
ricordare l'uso ossessivo dell'interposta persona, ossia ogni
nuova vicenda, personaggio, tema o circostanza non è mai innestata
direttamente e a crudo su quella precedente, ma Eco si serve piuttosto
di comparse e personaggi di transizione che hanno il compito di
allentare la tensione in vista dell'apertura di un nuovo filone.
Una
menzione merita il sistema delle cornici temporali, concepite a cerchi
concentrici: all'esterno (prime ed ultime pagine, per intenderci) c'è
l'intervento del Narratore, la cui personalità è fuori dal tempo e dallo
spazio, tanto da iniziare a raccontare con un lunghissimo periodo
ipotetico a più riprese, col fine sottaciuto di dichiararsi estraneo
alle vicende narrate; a ridosso degli interventi del Narratore c'è il
presente di Simonini, ossia il momento in cui inizia a redigere un
diario sotto consiglio medico per riacquistare la memoria, un presente
in cui vive e scrive il suo doppio, l'abate Dalla Piccola; il nucleo
centrale, il cuore del romanzo, è invece costituito dal passato di
Simonini, dalle sue peripezie giovanili fino agli accadimenti più
recenti.
A chi ha paragonato questo romanzo ad un romanzo
d'appendice ottocentesco, basandosi semplicemente sulle incisioni che
arricchiscono il bel volume della Bompiani, consiglio vivamente di
ripassare Hugo, Dickens e Dumas. Il Feuilleton ha una struttura
essenzialmente cadenzata ed regolare, con capitoli o
puntate di dimensioni costanti e recanti in grembo elementi ed
aspettative capaci di stimolare la curiosità del lettore, spingendolo
all'acquisto della puntata successiva. Fenomeni questi non privi d'alcun
riscontro in Eco, ma manco così frequenti da poterci appiccicare
frettolosamente etichette inesatte. Ancora peggio chi tenta di ascriverlo alla macrocategoria del giallo. La realtà è che quest'opera non è strettamente catalogabile sotto questa o quella dicitura, qualsiasi tentativo in questo senso troverà scettico quasiasi lettore.
Sul piano contenutistico la chiave di volta dell'intera narrazione è la demonizzazione del diverso, teorizzata in un antisemitismo cieco ed ottuso e concretizzata nella redazione dei Protocolli di Sion, a cui Simonini dedica quasi tutta la sua esistenza, nei quali viene divulgato un complotto ebreo per conquistare il mondo. Il fatto inquietante è che i Protocolli siano realmente esistiti e siano stati anche alla base dell'antisemitismo nazista, nonostante fosse stata ampiamente ed anticamente dimostrata la loro falsità. Che cos'è quindi l'antisemitismo di Simonini? Si tratta di un odio sopito insito nella società tardottocentesca, sobillata ad arte contro il nemico di turno (accanto ad ebrei trovansi nella fattispecie massoni, gesuiti e monarchici). Un nemico che non si è mai fatto vedere:
[...] anche se di faine non ne avevo e non ne ho mai viste (odio le faine come odio gli ebrei).
(U.Eco, Il cimitero di Praga, p.251)
Vane e insensate mi appaiono a tal proposito le accuse della storica Lucetta Scaraffia, secondo la quale il lettore sarebbe incline a prendere sul serio l'antisemitismo di cui è permeato il testo sino a risultarne addirittura influenzato, trascendendo invenzione e realtà. L'unica replica possibile è la stessa risposta data al gioco metaletterario di cui sopra: è tutto falso. Ed un romanzo che può assurgere ad un piccolo trattato di storia della diffamazione ottocentesca, non può che provare l'artificiosità delle posizioni antisemite mostrandone il loro proprio meccanismo di formazione. Simone Simonini non è un personaggio che entra in empatia con il lettore, fino a risultare a tratti sgradevole per il suo cinismo; che lui e le sue idee possano ispirare repulsione invece che favore è indubbio.
Concludendo consiglio la lettura della splendida intervista concessa da Eco a Claudio Magris, sulle colonne del Corriere della Sera, reperibile a questo indirizzo.
Adriano Morea
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