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CriticaLibera - Tradurre Seamus Heaney: qualche riflessione

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Il traduttore copia con colori a lui propri, scriveva D’Almebert. Nella lunga riflessione sulla traduzione – che passa dalle tappe “obbligate” di Benjamin, Ricœur, Etkind, Eco, eccetera eccetera – le parole dell’enciclopedista francese appaiono rassicuranti. Tradurre significa colorare. Il problema, chiaramente, sta nel trovare i colori giusti. E il problema si amplifica se anche il nostro poeta “source” è già di per sé un poeta “colorato”, un poeta immaginifico che non parla – o meglio non solo – di amore o sentimenti universali, ma della sua terra e dei suoi colori.

È il caso, tra tanti altri, di Seamus Heaney e della sua poesia fatta di terra; poesia che appartiene a un luogo, l’Irlanda, e che spesso ripercorre il tempo delle memorie infantili del poeta-soggetto. Scavare nella sua memoria e nella sua cultura per portare alla luce la civiltà contadina è manifesto del poeta fin dalla sua prima raccolta, Death of a Naturalist (1966). La penna sarà la sua vanga (Between my finger and my thumb / The squat pen rests. / l'll dig with it) scrive il poeta in Digging, e con la penna Heaney scava – junghianamente – nel suo passato, e fa riaffiorare immagini e colori personali, ma anche traumi e sensi di colpa nazionali.

Proprio per questo inscindibile legame con un luogo preciso, l’Irlanda, e con una società, quella contadina, tradurre Heaney non è cosa semplice. Seppure a un primo impatto sembrerebbe una poesia molto descrittiva e poco metafisica, quindi tutto sommato facile da rendere anche in un'altra lingua, la soggettività del poeta emerge preponderante in ogni verso, soprattutto attraverso scelte lessicali ben determinate, che inevitabilmente nella lingua seconda rimandano a più opzioni. Scegliere la parola giusta, quella che abbia il profumo e il colore dei campi ma che sia anche sporca di fango, è complicato. Anni fa ci provai e insieme a un’amica inglese tradussi la lirica The harvest bow (presente nella raccolta Field Work del 1979). Quello proposto qui è il frutto di quel lavoro.

The harvest bow

As you plaited the harvest bow

You implicated the mellowed silence in you

In wheat that does not rust

But brightens as it tightens twist by twist

Into a knowable corona,

A throwaway love-knot of straw.


Hands that aged round ashplants and cane sticks


And lapped the spurs on a lifetime of game cocks

Harked to their gift and worked with fine intent

Until your fingers moved somnambulant:

I tell and finger it like braille,

Gleaning the unsaid off the palpable,


And if I spy into its golden loops

I see us walk between the railway slopes
Into an evening of long grass and midges,
Blue smoke straight up, old beds and ploughs in hedges,

An auction notice on an outhouse wall—

You with a harvest bow in your lapel,



Me with the fishing rod, already homesick

For the big lift of these evenings, as your stick

Whacking the tips off weeds and bushes

Beats out of time, and beats, but flushes

Nothing: that original townland

Still tongue-tied in the straw tied by your hand.



The end of art is peace

Could be the motto of this frail device

That I have pinned up on our deal dresser—

Like a drawn snare

Slipped lately by the spirit of the corn

Yet burnished by its passage, and still warm.

Il nodo della mietitura 
Quando intrecciasti il nodo della mietitura/ Infilasti i tuoi ricchi silenzi/ Nel grano che non arrugginisce/ Ma si indora stringendolo treccia su treccia /In una corona riconoscibile, /Un nodo d’amore di paglia usa e getta./ Mani invecchiate strette attorno a piante di frassino e a canne di bambù/ Mani che lambivano gli speroni su una vita di galli da combattimento/ Mani che assecondavano le loro capacità e lavoravano con fine intento / Sino a quando le tue dita non si muovessero nel sonno:/ Io lo racconto sfiorandolo come se fosse braille, / Spigolando il non detto dal palpabile,/ E se sbircio dentro i suoi cappi dorati/ Vedo noi che camminiamo tra le pendici della strada ferrata/ Verso una serata di erba alta e moscerini./ Il fumo azzurro che sale dritto, vecchie reti da letto ed aratri buttati nelle siepi/ L’annuncio di un’asta sul muro-/ E tu con un nodo della mietitura nel risvolto della giacca,/ Io con la canna da pesca , già con la nostalgia/ Della grande pescata di queste serate, mentre il tuo bastone/ Che taglia le cime alle erbacce e agli arbusti/ Batte fuori tempo, e batte, ma non salta fuori/ Nulla: quella cittadina originaria/ Rimasta ancora senza parole nella paglia da te intrecciata. / Il fine dell’arte è la pace/ Potrebbe essere il motto di questo fragile meccanismo/ Che io ho appeso sulla nostra credenza di abete-/Come un laccio teso/ Fatto scattare da poco dallo spirito del grano/Eppure dorato dal suo passaggio, e ancora caldo.


***

Intrecciando il nodo della mietitura, il poeta premio Nobel intreccia anche le sue sensazioni alla descrizione delle immagini che fanno parte del suo vissuto. Fin dal primo verso la possibilità di interpretare le azioni di quel “you” indefinito è duplice: considerarli gesti ripetuti nel tempo come una sorta di rituale, e in tal caso usare nella traduzione il tempo imperfetto (“intrecciavi” e “infilavi” per “plaited” e  “implicated”)? Oppure, e tale è stata la mia scelta, preferire il passato remoto per garantire “l’unicità” nel tempo di queste azioni e sensazioni? E poi un po’ più in là ecco il tempo presente, riservato alle azioni dell’ “io” dell’undicesimo verso che si introduce subito come soggetto narrante (“Io lo racconto”).

The harvest bow è una lirica fatta di metafore e similitudini belle e ardue da tradurre: ecco, quindi, che “un nodo d’amore usa e getta”, “sfiorandolo come se fosse braille” e “il motto[...]che io ho appeso[...] come un laccio teso” cercano di essere traduzioni efficaci di “a throwaway love-knot”,  “I [...]finger it like braille” e  “the motto [...] that I have pinned up [...] like a drawn snare”.

La ricerca di una sonorità il più possibile compatibile con quella originaria ha rappresentato forse il problema principale nella resa della poesia: la preferenza per un verso libero è stata – lo ammetto –  innanzitutto  conseguenza della mia difficoltà a tradurre “in rima”, rispettando il numero delle sillabe del verso originale. E poi ho cercato di favorire piuttosto le scelte lessicali che quelle strutturali, cercando di “copiare” il colore e il calore del grano con parole mie.

Quello proposto qui non è che un esercizio senza pretese che una studentessa universitaria fece più di un lustro fa. Ma vuole anche e soprattutto essere un invito rivolto a chi pratica il mestiere delle lettere a non mettere da parte la feconda pratica della traduzione, base della critica e del lavoro filologico.
Come scrive Antonio Prete in All’ombra dell’altra lingua (Bollati Boringhieri, 2011) tradurre è un atto di crescita, in quanto la nostra lingua si arricchisce e si modifica durante il viaggio della traduzione. Chi le pratica sa che le lingue sono le più gelose tra gli amanti, che si offendono terribilmente ogniqualvolta le si trascuri per prediligere un’altra lingua. La traduzione è un atto d’amore e di pace, che intreccia due lingue e due diversità. È compito politico di chi cerca di promuovere le differenze e di chi fa esperienza quotidiana della condizione della soglia.
Serena Alessi