La
scrittrice sassarese, trapiantata a Roma, Maria Antonietta Pinna, di cui
abbiamo recentemente recensito il bel “Fiori ciechi”, ha gentilmente accettato
di rispondere ad alcune nostre domande.
Maria
Antonietta, puoi parlare brevemente di te ai lettori di CriticaLetteraria?
Sono cresciuta in un
piccolo paese della Sardegna, un microcosmo in cui puoi osservare i caratteri e
capire che sono piccoli campioni universali. L’umanità è più o meno identica
dappertutto. Le stesse invidie, le stesse meschinità, i medesimi egoismi come
diceva Miss Marple nei famosi romanzi di Agatha Christie. Il villaggio è lo
specchio del mondo. Fin da piccola ho avuto la passione per la lettura. Ricordo
che non vedevo l’ora di imparare a leggere per poter esplorare nuovi mondi e
avere informazioni su cose che non sapevo. Ma più leggevo più mi rendevo conto
di non sapere niente. Alla fine questa sensazione infantile è diventata una
certezza con l’età adulta. La curiosità che ci spinge alla lettura è la stessa
che poi ci apre gli occhi riguardo al fatto che non sappiamo granché. Possiamo
soltanto assaggiare con la fantasia porzioni di infinito. Ognuno lo fa a modo
suo. La scrittura è un metodo di indagine che spazia dall’interiorità all’esteriorità,
in una dinamica di superamento dell’io lirico, necessaria per poter comunicare.
Da qualche anno ho
iniziato la collaborazione con la web-magazine “Sul Romanzo” di Morgan Palmas
che apprezzo per la coerenza e, se vogliamo dirla tutta, anche per il coraggio
nel postare articoli un “po’ scomodi”. Ho fatto recensioni negative su libri di
autori famosi, che pubblicano con grandi editori. Un esempio fra tutti Coelho o
peggio Flavia Vento, pubblicata addirittura da Bietti, il che la dice lunga
sulle attuali condizioni dell’editoria italiana. Niente è stato censurato dal
blog.
Poi ho cominciato a
pubblicare dei libri tra cui Fiori ciechi,
Annulli editori, il mio primo romanzo e Mister
Yod non può morire, La Carmelina Edizioni. Un altro libro di poesie: Lo strazio, è in preparazione con Marco
Saya editore.
Il saggio Dalle galee al bagno al carcere che ho
pubblicato nel 2010, invece, merita un discorso a parte. Ho scritto un articolo
sull’editore: http://marylibri1.wordpress.com/2013/01/23/il-ghost-editore-armando-siciliano/
C’incuriosisce
il fatto che tu sia laureata in criminologia, come si concilia questo con la
tua attività letteraria?
La criminologia è uno
dei miei interessi. Mi interessa il suo lato oscuro, psicanalitico,
motivazionale che certamente si concilia con la mia attività letteraria.
Infatti cerco di creare nei romanzi e nei testi teatrali un senso di
alienazione attraverso il quale si attiva una sorta di viaggio introspettivo,
come se i personaggi si staccassero dal proprio io per guardarsi “da fuori” ,
osservando con occhio lucido ed indagatore anche il mondo esterno. Mentre la
criminologia però ha lo scopo di risolvere il mistero, la letteratura lo crea. Lo
scopo di ogni buon romanzo è creare dei dubbi nel lettore. Le soluzioni
preconfezionate sono poco interessanti. Il fine deve essere sempre e solo la
riflessione, la capacità di far camminare i neuroni. Un procedimento che è oggi
poco apprezzato dall’editoria che preferisce lavori omogenei, senza genio,
destinati ad un pubblico anestetizzato. La perdita del rapporto con il simbolo,
con la mitopoiesi, con l’interiorità da parte di tanta pseudo-letteratura, è un
sintomo di decadenza culturale.
Assolutamente scettica.
Non credo in oroscopi, tarocchi, magie e filtri d’amore. Mi piace la filosofia
esoterica di Guénon, il concetto di movimento del pensiero di Massimo Scaligero.
Non ho mai pensato infatti alle idee come a qualcosa di statico, immobile o
cristallizzato, ma come ad entità dinamiche, che si muovono in continuazione
nello sforzo di capire, di sondare, di andare oltre l’apparenza. Detesto
l’esoterismo manualistico, della serie prevedo il tuo futuro, dimmi il tuo nome
e ti dirò come sei e fanfaluche del genere. E in effetti si pensa subito ad una
festa da imbonitori di piazza quando si pronuncia la parola esoterismo. Ma non
è così. Bisogna saper distinguere in mezzo ad una marea di manuali fai da te
del perfetto stregone, testi che invece sondano la coscienza e ti fanno
riflettere. Non nego che mi incuriosiscono i fenomeni di bilocazione, gli stati
alterati di coscienza, e i fenomeno premonitori a livello proprio di
sensazione. Inoltre mi piace leggere testi alchemici che hanno comunque un
significato “morale” e filosofico, al di là della spasmodica ricerca dell’oro.
In
che modo i tuoi testi mescolano la visionarietà che ti caratterizza con
l’attualità?
L’allucinazione è il
modo migliore per raccontare la verità. Questo è un concetto antico che gli
editor attuali fanno fatica a digerire. Cosa c’è di più assurdo dei dialoghi
della Cantatrice Calva di Ionesco? Eppure in quei dialoghi c’è tutto, c’è
l’incomunicabilità, l’angoscia esistenziale dell’uomo moderno, c’è lacerazione
e alienazione, dolore e sconcerto. Il lettore superficiale questo ovviamente
non lo capisce. Alcuni editori che di letteratura capiscono poco, pensano che
il visionario sia proprio soltanto delle favole per bambini. Questo è un grave
errore di valutazione, perché la deformazione dell’oggetto può essere
utilissima anche all’adulto. La distorsione consente paradossalmente di
“sentire meglio”, di amplificare le sensazioni, rendendole quasi tattili, consentendo
al fruitore di percepire con maggiore intensità. La visionarietà ovviamente non
deve e non può essere fine a se stessa, deve essere significante, ossia
veicolare sensi, quindi io la collego alla cronaca, alla realtà attraverso un
procedimento simbolico. Una scatola dentro un’altra scatola dentro un’altra
scatola… Questo metodo richiede uno sforzo di lettura in più perché il simbolo,
proprio in virtù della sua stessa costituzione ed essenza, non è mai
immediatamente percepibile. A questo proposito di recente un editore mi ha
detto: «Voglio cose che si capiscano subito, perché il lettore non deve farsi
schioppare i neuroni per capire». Credo che questa frase riassuma purtroppo una
tendenza generale dell’editoria odierna. Non è necessario che il lettore
capisca, l’importante è che compri.
Non
pensi che il surreale faccia parte di un’avanguardia che ormai non è più tale,
che è superata dai tempi di Beckett e Ionesco?
No, non credo proprio.
Penso che la forza del surreale sia quella di proporre fantasie in continuo
rinnovamento perché non c’è limite alle connessioni simboliche originali. Il
simbolo è inesauribile, è come una macchina che ti può trasportare in mondi
sempre diversi, in modo che tu possa parlare di temi differenti e far
riflettere continuamente il lettore. Con il simbolo puoi andare dove vuoi
tranne che nel regno del banale. E credo che sia questo il vero problema.
L’editoria ama la banalità di Coelho o della Mazzantini. Il vero vecchiume è
rappresentato dall’ostinata tendenza a proporre sul mercato storielle buoniste,
di matrice vetero-cattolica, tragedie amorose, insulse trame sentimentali
spacciate per letteratura. Trionfo della banalità.
In
una precedente intervista, circa la poesia hai detto che “deve colpire l’occhio
ritmicamente e la testa intellettualmente”. Come la metti con la musicalità, di
cui il tuo testo, a nostro parere, è ricco in modo assolutamente positivo?
La musicalità deve
essere al servizio del cervello, sua buona ancella fedele. A che serve una
bella donna senza cervello? La bellezza e il ritmo devono accompagnarsi alla
forza perforante dell’intelligenza, altrimenti si precipita in un vuoto di rime
ad effetto, belle ma senza energia.
Il
libro è un prodotto che si deve vendere. Pensi davvero che i tuoi possano avere
un grande pubblico? E se la risposta è no, perché la tua è una narrativa
sperimentale e ostica, per un pubblico di nicchia come tu stessa ammetti,
questo ti appaga?
Per prima cosa vorrei
precisare che fare narrativa sperimentale non significa affatto rivolgersi ad
un pubblico di nicchia. Infatti uso un linguaggio scorrevole, evito gli
eccessivi tecnicismi anche nelle descrizioni di macchine e apparecchi che
eventualmente possono comparire nei miei romanzi. Certo non scrivo storielle
sentimentali. I miei dialoghi sono fitti, ironici e pungenti. Non mi rivolgo
alla nicchia, soltanto ad un lettore che non ama la banalità e apprezza il
surreale. L’avere un grande pubblico spesso non dipende dallo scrittore, ma
dalla distribuzione. Se 100 lettori passano davanti alla vetrina di una
libreria e trovano il mio libro forse qualcuno di essi lo compra, se non lo
vede nemmeno, come può comprarlo? Il fatto che un libro “si venda” non è
comunque sinonimo di qualità. Ci son scrittori pessimi che vendono tantissimo
perché magari il grosso gruppo editoriale che li ha pubblicati, fa molta
pubblicità. Se poi un mediocre regista ci fa un film che spesse volte è peggio
del libro, la gente corre a comprarlo.
Sappiamo
che hai in corso un processo per un caso di plagio letterario di cui affermi di
essere stata vittima. Non entriamo nel merito della questione, ma ti chiediamo
se, in un mondo virtuale e social, dove imperversa il copia incolla, esista
ancora la proprietà intellettuale.
Del plagio letterario
nessuno e dico nessuno vuole mai parlare. Quando ho denunciato pubblicamente il
plagio della mia tesi di laurea: Il
collegio dei Nobili di Parma agli inizi del Settecento, postando perfino le
indicazioni precise delle pagine completamente copiate, in pratica tutto il
lavoro, sia l’elaborazione creativa che la trascrizione del Diario di Padre
Antonio Magaza, alcuni hanno detto che avrei dovuto tacere. Perché? In Italia
si usa così. Il più forte schiaccia il debole, da sempre. Un post in cui si
parlava del plagio e in cui il professore plagiario non sapeva confutare se non
dicendo che scrivo “raccontini”, è stato oscurato dalla polizia postale.
L’indomani ecco vari
articoli sulla libertà di informazione in rete. Molti di questi articoli
sottolineano che il problema non è il plagio quanto il fatto che un post è
stato oscurato. La libertà è stata lesa? Sì, no, pareri discordanti. Del plagio
letterario tutti si guardano bene dal parlare. È come se fosse una tradizione
consolidata, come se fosse normale che un docente universitario possa copiarsi
tutta la tesi sperimentale dello studente e darla alle stampe con il proprio
nome.
Forse perché i docenti
universitari spesso sono editor delle case editrici e non bisogna inimicarseli?
Forse perché sono legati a personaggi che contano?
Il professore contro
cui ho fatto causa, per esempio, ha presentato in tribunale, a titolo di merito,
un elenco di illustri docenti a cui avrebbe donato il libro tra cui anche
persone piuttosto note.
Hai
fiducia nella giustizia?
Se posso essere del
tutto sincera, no. La giustizia in Italia è come la nota marca di uno spumante,
“per molti, ma non per tutti”. E se hai pochi mezzi economici e nessun appoggio
politico, forse sei destinato a perdere. La verità processuale spesso non è
quella reale
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Intervista a cura di Patrizia Poli
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Intervista a cura di Patrizia Poli