Un silenzio straordinario. Racconti chassidici
A cura di Rami Shapiro
Editrice La Giuntina
Firenze, 2005
pp. 235
Quando sono state tutte
pronunciate quell’individuo muore.
Di conseguenza, ogni parola che
pronunciamo ci avvicina alla morte e dovremmo chiederci, ogni volta che stiamo
per utilizzarla, se vale la pena morire per essa.
Affascinante insegnamento,
soprattutto per chi è convinto del potere delle parole e della riverente e
conseguente necessità di non sprecarle.
Conosciuto questo particolare,
non dovrebbe sorprendere ulteriormente l’icastico titolo di un ottimo libro di
racconti chassidici: “Un silenzio
straordinario”.
Silenzio che non è inteso
soltanto nella sua accezione negativa, mera assenza di parola.
Similarmente al “gancio” da cui
pende il “peso”, di cui parla Carlo Michelstaedter nell’incipit de “La persuasione e la rettorica” (Adelphi,
Prima Edizione 1982), la cui vita “è questa mancanza della sua vita”, il
silenzio “sostiene” la responsabilità della parola, della cui natura fa parte
integrante, essenza ontologica del suo esistere, del suo essere silenzio: “Quando
esso [il peso ovvero la parola] non mancasse più di niente – ma fosse finito,
perfetto: possedesse sé stesso, esso avrebbe finito di vivere”.
Rimanendo in silenzio, si cede
tutto il nostro sapere e gli permettiamo di distruggerlo: “Ciò che viene
distrutto è ciò che sappiamo; ciò che viene costruito è ciò che non sapevamo”,
con la consapevolezza che “il nuovo diventa vecchio e quindi questo sacrificio
deve rinnovarsi continuamente”.
Se affermo che la narrazione,
come la memoria e l’erranza, sono l’essenza dell’ebraismo, non dico nulla di
sconosciuto ai più o di originale, tanto è nell’evidenza dei fatti.
Il racconto fa parte della vita
quotidiana degli ebrei, presente anche nelle loro celebrazioni o festività (per
esempio nel Seder cioè nella cena del
Pesach, la Pasqua ebraica, dove si è
soliti recitare il racconto dell’Esodo dall’Egitto, la cosiddetta haggadah).
Del resto, una battuta afferma
che “se non ha una risposta da dare, l’ebreo ha sempre una storia da
raccontare”.
Da raccontare. Senza sprecare
nulla.
La parola è (per gli ebrei e non
solo) è vita e…“sia essa scritta, sottolineata, parlata, o cantata, una parola
ha il potere di sanare o di fare del male” cioè ha un valore morale e salvifico:
“la qualità della nostra conversazione rispecchia la qualità della nostra anima. Un discorso ozioso è un chiacchierare sconsiderato, che suggerisce l’idea di una mente sventata. Se vogliamo migliorare la seconda, dobbiamo migliorare il primo” (pag.57).
Il grande valore dei racconti
chassidici risiede nella capacità di sorprendere, di far riflettere, ma anche
di far sorridere. A volte contemporaneamente.
Nel e dal sorriso si dipanano le
più profonde riflessioni, se non una pura saggezza.
“Rabbi Schlomo Leib si schiera con la prima. Menachem Mendel con la seconda. Rabbi Yaakov David si limita a sorridere”.
In queste diverse risposte,
antitetiche o sagacemente ammiccanti, risiedono la varietà e la complessità del
pensiero chassidico.
Il racconto nella cultura
chassidica - nelle sue molteplici forme dell’aforisma, dell’agiografia, della
parabola – “lungi dall’essere forma di intrattenimento o una narrazione
favolistica, assume un significato rituale” (D. Leoni, “I maestri del chassidismo”, Città Nuova, 1993, pag. 8).
I chassidim parlano di tre “Indumenti
dell’Anima” cioè di tre modi in cui Dio entra nel mondo: il pensiero, la parola
per l’appunto e l’azione.
Essi sono collegati tra loro,
consecutivi perché “il pensiero porta alle parole che portano all’azione”.
La purificazione dell’Anima è
l’obiettivo di ogni vita spirituale e ciò che la sporca è l’egoismo.
Data questa concatenazione, la
pulizia di un Indumento influisce sugli altri.
Per procedere alla purificazione
della propria anima, non bisogna iniziare con il pensiero ma procedere a
ritroso con le proprie azioni (pagg. 66-67).
La concretezza delle azioni è quindi
sempre presente nei racconti, così come lo è nei brevi commenti che seguono
(quasi un’esegesi morale del testo che in realtà ne amplifica il significato):
“Lo stile di vita chassidico tiene sempre presente il mondo. Il nostro compito non è evadere da questo mondo ma santificarlo. Come? Trattando ogni cosa con il massimo rispetto e con considerazione e non ignorando l’aspetto fisico, nemmeno nelle cose spirituali” (pag.170).
Tutto ciò anche quando la
concretezza si esprime nel corpo:
“Noi non siamo il nostro corpo.- il che non vuol dire che il nostro corpo non sia noi. […] Se finiamo con l’identificarci totalmente con il nostro corpo, siamo spaventati dalla nostra mortalità. Se rifiutiamo il corpo, siamo spaventati dai nostri desideri fisici. Il punto di equilibrio sta nel rispettare il corpo senza esserne ossessionati” (pag.133).
Così come non siamo i nostri
sentimenti o non siamo i nostri pensieri, in maniera totalizzante e univoca.
Il punto di equilibrio è provarli
o riconoscerli senza esservi attaccati eccessivamente.
Emerge qua e là un certo
misticismo o gnosticismo e un’idea precisa della realtà dove “Dio è l’essenza
stessa della realtà” (pag. 107), infinito e senza confini, e non separato da
alcuna cosa.
Anche l’esilio va inserito in
quest’ottica: “la nostra sensazione di esilio non è una punizione, ma un’errata
interpretazione del dono dell’unicità”.
Aggiungendo: “Ci vengono concesse
sia l’unità che la diversità. La sfida sta nel vedere la seconda come una
manifestazione della prima” (commento al racconto “La salvezza, ora”, pag.
129).
Questo misticismo raggiunge delle
vette quasi poetiche quando è espresso con argomentazioni tipiche della cultura
ebraica o cabalistica.
La parola ebraica che esprime “niente”,
ad esempio, è ayn che è anche uno dei
nomi cabbalisti di Dio, che è così il “Nulla” che dà origine a tutte le cose.
La cabbala è centrata
sull’importanza delle parole e quando parole diverse sono composte dalle stesse
lettere, si ritiene che condividano un’unità.
Orbene la parola “Io” in ebraico è anì (quindi contiene le lettere alef,
nun e yod) che ha le stesse lettere di ayn.
La lettera yod - che per la cabbala rappresenta la consapevolezza – può essere
o alla fine cioè all’esterno della parola, come in anì o in mezzo alla parola, come in ayn.
Pertanto, quando la
consapevolezza si trova all’esterno, sarà l’”Io” a emergere; se la
consapevolezza invece è all’interno (come in ayn), allora sarà Dio a essere presente.
L’uomo è al contempo l’Io
esteriore e il Nulla interiore e “la
sfida sta nel vedere il Niente nell’altro quando siamo anì; e il sé nel Niente
quando siamo ayn” (commento al Racconto “Niente”, pag.103).
Una religiosità, quella
chassidica, che si solleva e dimora sul crinale instabile del nichilismo: “Non
fate conto su niente e le vostre fondamenta saranno salde” (pag. 197).
I racconti della raccolta curata
dal rabbino Rami Shapiro sono davvero troppi per poterne citare solo alcuni,
senza causare ingiustizia o forzare la volontà secondo un puro e particolarissimo
gusto personale.
Mi prendo soltanto la licenza di riassumere
il racconto intitolato “Evitare il fango” (pag. 108).
Due Rabbi dovevano affrontare un
viaggio, ma mentre Rabbi Meir se ne stava su un carretto malandato tirato da
due cavalli pelle e ossa, Rabbi Ysrael si avviava su una lussuosa carrozza
tirata da due possenti stalloni.
Quest’ultimo rimprovera il primo
perché era da incoscienti affrontare il viaggio in quelle condizioni: la
carrozza avrebbe rischiato di finire bloccata in una pozzanghera di fango, e
con quei miseri cavalli non avrebbe potuto liberarsi facilmente.
Rabbi Meir risponde invece che a
rischiare sarebbe stato proprio Rabbi Ysrael con i suoi robusti cavalli.
Questo perché mentre lui – avendo
coscienza della debolezza del proprio mezzo di trasporto - sarebbe stato molto
attento a evitare il fango, Rabbi Ysrael viceversa, per la (falsa) sicurezza di
riuscire a liberarsi, avrebbe commesso qualche leggerezza e sarebbe rimasto
prima o poi bloccato in una pozzanghera.
La storia può essere letta
secondo diversi aspetti.
Nel commento che segue il
racconto, si suggeriscono due linee interpretative: una legata al significato
delle parole e l’altra alle ricchezze.
Nel primo caso, la storia
racconterebbe dell’accortezza che si dovrebbe avere per l’impatto delle parole prima che siano pronunciate, che eviterebbe
situazioni incresciose da cui invece dovrà liberarsi, non senza difficoltà, chi
viceversa non riflette su ciò che dice.
Nel secondo caso, la ricchezza,
derivante da diligenza e previdenza (affrontare il viaggio con una carrozza
affidabile e con robusti cavalli), permette di avere sempre la forza di uscire
fuori dal fango in cui accadrà di trovarsi.
Insomma, in questi racconti c’è
un mondo.
Descritto in maniera semplice,
con spiegazioni sottilmente moralistiche o mistiche, ma sempre lineari,
limpide, profondamente religiose o meglio spirituali.
Un libro che si può leggere
indipendentemente (e ci tengo a sottolineare questo aspetto) dall’essere o meno
credenti, dall’essere o meno ebrei, perché è un libero e arguto girovagare
attorno al sentiero della saggezza.
Saggezza che si trova stabilmente
sullo sfondo di tutti i racconti; così fondamentale da richiedere, se
necessario, - come ne “Il valore della saggezza” - il sacrificio di una
maledizione e la violazione di un segreto o di una promessa.
E di saggezza ce n’è davvero
tanta nel libro, pur riuscendo – cosa non facile quando si eccede in quantità -
a non scadere in facili ovvietà o luoghi comuni.
Giuseppe Savarino
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