di Domenico Cipriano
Transeuropa, 2010
pp. 37
Novembre
è il più crudele dei mesi, avrà pensato (inconsapevolmente parafrasando il poeta)
il bambino decenne che nel 1980 vive in prima persona, tra lo sgomento e la «sorpresa»,
i risvolti drammatici del terremoto dell’Irpinia. Un’iniziazione al mondo
adulto fatta di terra, calcinacci, cumuli di macerie, crepe, fuochi
all’addiaccio e sangue, evidentemente incisa nella carne e nella memoria se a
distanza di trent’anni, con «occhi / diversi», quel bambino, nel frattempo scopertosi
poeta, ritorna a quella triste pagina della storia italiana più recente. È
questa infatti, a ben guardare, la ragione profonda che anima le liriche di Novembre, la piccola ma intensa
plaquette di Domenico Cipriano edita nel 2010 nell’accattivante collana di
Transeuropa Inaudita, la quale in
allegato propone il cd di Pippo Pollina sulla strage di Ustica, anch’essa
avvenuta nell’annus horribilis 1980.
Nelle pagine del libro di Cipriano trapela
una ferrea volontà di ricostruire, mediante il filtro poetico del ricordo, ciò
che il sisma ha irrimediabilmente distrutto a partire da una solida impalcatura
stilistica che lo stesso autore esplica nella Nota finale:
Per ricordare diventano ossessivi
i numeri. Ecco allora la sequenza di 23 poesie come la data del sisma, tutte
composte da “stanze” di 7 versi (poesie eptastiche) e un prologo di 34: l’ora
serale che spaccò l’Italia: 7,34. Ciò accadde un novembre lontano ma sempre
presente, da cui il titolo e l’introduzione di 11 versi (il numero
corrispondente al mese di novembre).
Una costrizione formale a cui è
assoggettato, come per una sorta di rivincita, lo stesso movimento tellurico di
quella nefasta sera di novembre, riprodotto, con studiato e sapiente andamento
ritmico-sintattico, nel primo testo:
trema la terra, le vene hanno
sangue che geme e ti riempie.
è un fiotto la terra che lotta,
sussulta, avviluppa. confonde
la terra che affonda, ti rende
sua onda, presente a ogni lato
soffoca il fiato, ti afferra,
collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole
e combatti, chiede il contatto,
ti attacca, ti abbatte. è fuoco
la terra del dopo risucchia di
poco le crepe: la terra che trema
riempie memoria. ti stana, si
affrange, ti strema, è padrona.
Cifra distintiva di quest’opera di
Cipriano è indubbiamente l’amalgamarsi di una vena che potrebbe definirsi
vibratamente “civile” e di una dimensione “lirica” ben ravvisabile nel motivo
della memoria che informa, come si è visto, la raccolta in questione. Nello
specifico, l’atteggiamento e la prospettiva del soggetto poetico nei confronti
della materia trattata sarebbe impossibile senza quella «parola / risorta» che
si fa carico dell’oneroso compito/imperativo di far vibrare di nuovo nell’aria «la
voce degli uomini / senza più voce» (intro).
A questo secondo coté è da ascrivere anche la vicenda privata dell’io-lirico,
inglobata, o sarebbe più opportuno dire intaccata, dai drammatici avvenimenti
della cosiddetta macrostoria. In quest’ottica, infatti, lo «restare sveglio
fino all’alba» nelle ore immediatamente successive al terremoto diventa una «sfida»,
uno svezzamento a un universo spietato e terrificante («nel lampo dei miei 10 (dieci) anni affrontavo / le paure», 3.) a cui il bambino risponde quasi
prefigurando in nuce il poeta che verrà:
«cercavo di costruire già le case / con le graste dure delle tegole: iniziavo /
a sfidare la presenza della terra mentre / altrove si scavava e nella terra si
moriva», 7.
A questo anelito costruttivo del bambino
si contrappone la logica dei «grandi» che
[…] si adattano ma non
comprendono
la semplicità da cui riaffiora la
vita. ci si abitua
ad altro dall’alto dei cumuli di
stracci e torna
il bisogno di farsi spazio e
sgomitare per i soldi
e il potere nella farsa di non
dimenticare.
(8.)
Ed è a questo punto che comincia a
insinuarsi, nella poesia di Cipriano, un tono di impegno civile lucido e
controllato che non indulge a sbavature retoriche di alcun tipo:
si rimette ordine classificando i
danni
le case sbriciolate, le vite
perdute,
ma nel conteggio si perde lo
strazio
le lacrime versate, il futuro
inaridito.
(13.)
L’esperienza maturata nel tempo porta al
poeta la consapevolezza che «le crepe non sono nella terra» (16.), sono da
cercare altrove; diciamo pure laddove sorgono agglomerati umani con la loro meschina
cupidigia di sopraffazione nei confronti del prossimo: «muta / il ceto sociale
con l’economia di scala e dall’altezza / del suo terzo piano la vecchia lamenta
la stanza / perduta, i centimetri quadrati non ricostruiti» (17.).
Alla poesia, in ultima istanza, in virtù di quella «parola» maieutica carica di spessore e di sentire umano, è affidata non solo la testimonianza del soggetto ricordante («siamo rimasti testimoni […] / degli anni del cambiamento / dell’involuzione dei nostri sentimenti», 22.), ma anche l’arduo compito di sanare ferite che fuori dal suo salvifico raggio d’azione non potrebbero rimarginarsi, come lascia intendere la suggestiva immagine dell’ultimo componimento: «abbiamo traslocato / i nostri corpi e lasciato solo / le crepe nude delle rughe / a vegliare sulla piazza».
Alla poesia, in ultima istanza, in virtù di quella «parola» maieutica carica di spessore e di sentire umano, è affidata non solo la testimonianza del soggetto ricordante («siamo rimasti testimoni […] / degli anni del cambiamento / dell’involuzione dei nostri sentimenti», 22.), ma anche l’arduo compito di sanare ferite che fuori dal suo salvifico raggio d’azione non potrebbero rimarginarsi, come lascia intendere la suggestiva immagine dell’ultimo componimento: «abbiamo traslocato / i nostri corpi e lasciato solo / le crepe nude delle rughe / a vegliare sulla piazza».
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