di Suzanne Collins
Mondadori, 2008
14,90
Ciò che crea un
fenomeno editoriale è la novità del soggetto. Il discorso vale per i monaci
assassini di Eco, per i vampiri “vegetariani” della Meyer, per la stirpe del sangreal di Dan Brown, o per il bondage sadomaso della James. Tutto quello
che viene dopo, è nella scia, è imitazione dell’originale.
Con The Hunger Games di Suzanne Collins si
apre forse una stagione di reality show adolescenziale all’ultimo sangue, ma il
suo essere capostipite di un nuovo genere, sta nella crudeltà dell’argomento
trattato che t’inchioda dalla prima all’ultima pagina.
Katniss Evergreen è un’adolescente
del Distretto 12, nel continente postapocalittico di Panem, un Nord America
inselvatichito e imbarbarito, dove coesistono scienza raffinatissima e
medioevo. Come punizione per un’antica ribellione verso la ricca e nullafacente
capitale, i vari distretti devono offrire annualmente un sacrificio umano. In
un reality show, che tutti sono obbligati a seguire, ogni distretto estrae a
sorte un ragazzo e una ragazza da offrire, o meglio immolare, in una lotta con un unico vincitore e un unico sopravvissuto. Il nome estratto è
quello di Primrose, la sorellina di Katniss, e lei non può accettarlo, si offre
volontaria al suo posto...
Inizia così una
preparazione che ha tutto lo sgradevole sapore cui ci hanno abituato anni di
trasmissioni televisive come l’Isola dei
Famosi o Il grande fratello, reso
ancor più agro dalla consapevolezza che l’eliminazione del giovane partecipante
coinciderà, non con il suo rientro a casa, bensì con la sua morte. I
concorrenti sono addestrati, rivestiti, intervistati, abbelliti da stilisti e
truccatori, per poi essere gettati nell’arena, un luogo che ricorda la cupola di
“The Truman Show”, dove niente è
naturale e ogni cosa è manovrata dagli Strateghi, cioè gli autori del
programma. I ruscelli scorrono o si seccano a comando, la pioggia scroscia su
ordinazione, l’aria si fa rovente o gelida secondo ciò che il programma e l’audience richiedono. Katniss guarda la
luna e spera che almeno quella sia vera, sia la luna di casa sua, per sentirsi
meno sola, meno vulnerabile, meno alla mercé di una dittatura che uccide, che
frusta, che strappa la lingua per il minimo sgarro, per una parola di troppo o
un atteggiamento di sfida.
Nell’arena si svolge
una lotta mortale con mani, unghie, denti, lame, frecce, che ci riporta a un
passato/futuro già visto in film come “Mad
Max”. I concorrenti, o meglio, i “tributi”, devono uccidersi l’un l’altro
per sopravvivere, altrimenti saranno comunque eliminati. Un colpo di cannone
segna l’uscita di scena del contendente e un hovercraft solleva il cadavere e lo porta via. L’unico sentimento è
la paura, che si trasforma in furia cieca; l’amicizia è solo un’alleanza momentanea
contro i più forti, nessuna debolezza è concessa.
Non è comprensibile
come si possa definire “Hunger Games”
“un romanzo per ragazzi”, se non, forse, nell’incapacità della protagonista (e dell’autrice) di affrontare e sviluppare a pieno il rapporto con il giovane
che la ama, Peeta, e il triangolo con l’amico d’infanzia, Gale. Si può obiettare
che il romanzo è incentrato nel microcosmo dell’arena, in una bolla
spaziotemporale che pare un videogioco, dove amarsi è secondario al rimanere
vivi, al mantenere intatta la possibilità di provare sentimenti umani.
“Non so bene come dirlo. Solo non voglio… perdere me stesso. Ha un senso? - chiede. Scuoto la testa. Come potrebbe perdere se stesso? – Non voglio che mi cambino là dentro. Che mi trasformino in una specie di mostro che non sono.?” (pag 143)
L’emblema angoscioso di
questa situazione da incubo è il sigillo che ogni notte viene proiettato
sullo schermo del cielo, preceduto da un inno. Subito dopo compare l’immagine
di chi è morto quel giorno. Lo stomaco si contrae dall’orrore, leggendo.
“La notte è appena scesa, quando sento l’inno che precede il riepilogo delle morti. Attraverso i rami vedo il sigillo di Capitol City che sembra fluttuare nel cielo. In realtà, sto guardando un altro schermo, uno schermo enorme trasportato da uno dei loro hovercraft.” (pag 157)
Il senso del romanzo è
la rivolta di Katniss e Peeta, il ragazzo che la ama, a tutto questo dolore,
all’obbligo di compiere comunque il male, di uccidere o essere uccisi. Anche soffrire,
anche provare dispiacere al pensiero di ammazzare un compagno innocente, è
considerato insurrezione. Quando muore Rue, la più piccola dei tributi, così
simile alla sorellina della protagonista, Katniss la piange e ne cosparge il
corpo di fiori, prima che l’hovercraft
venga a raccoglierla, e questo è già un atto di ribellione. Lo stesso vale per il
gesto finale: Katniss e Peeta scelgono di morire insieme piuttosto che
uccidersi l’un l’altro, scelgono di fare ciò che Peeta ha deciso fin dall’inizio,
cioè non concedersi al nemico, rimanere umani, rimanere interiormente puri e liberi.
Si salveranno in extremis, ma il finale resta aperto per gli altri due libri
della serie, “La ragazza di fuoco” e “Il canto della rivolta”.
Questo libro è una
mescolanza di generi da cui scaturisce, forse, un genere nuovo, sincretico. Il cosmo
di Panem contiene due mondi. Il primo è quello tecnologicamente sofisticato di
Capitol City, una sorta di Ghotam City, dove si ritrovano molti cliché della
fantascienza - dalla possibilità di risanare completamente ferite mortali, alla
manipolazione genetica che crea nuove letali specie e ibridi mostruosi. Il secondo
è quello medievale, oscuro, miserevole, dei distretti, dove la fame imperversa,
dove ogni cosa è proibita, la corrente elettrica va e viene, e per cacciare si
usano arco e frecce, lacci e trappole.
“Capitol City scintilla come un’enorme distesa di lucciole. Nel distretto 12 l’elettricità va e viene e di solito c’è solo per qualche ora al giorno. Capita spesso che le sere si trascorrano alla luce delle candele. Le rare volte in cui possiamo contare sull’energia elettrica sono quando la tv trasmette gli Hunger Games o qualche importante messaggio governativo che è obbligatorio guardare. Qui, invece, l’elettricità non manca. Mai.” (pag 83)
Katniss, Peeta, Rue,
Faccia di Volpe, Gale, somigliano, di volta in volta, ai protagonisti di “Alien” o “Prometheus” e, insieme, ai rampolli della stirpe di Shannara, fra
tecnologia e arretratezza, fra passato e futuro remoto. L’unico presente,
forse, è quello degli studi televisivi, che ci riporta all’oggi, al nostro
essere costantemente sotto le telecamere, sugli schermi, per strada, nei social
network.
Lo stile è paratattico,
coinvolgente, giovanile, reso incisivo dal presente storico. Ci cala dentro l’azione
che prevale su tutto il resto, lasciando che le riflessioni e il sentimento
morale scaturiscano per reazione a ciò che accade, al raccapriccio delle
immagini, degli eventi, della sofferenza, in un crescendo di
angoscia che dà quasi assuefazione.
E ora aspettiamo il
film, in uscita a maggio, ma già dal trailer
possiamo affermare che non ci deluderà.
Patrizia Poli
Patrizia Poli
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