Nel 1959 fu dato alle stampe quello che sarebbe diventato una delle pietre miliari della speculazione sulla traduzione, il saggio Aspetti linguistici della traduzione di Roman Jakobson, che oggi, a più di cinquant'anni di distanza, conserva una buona dose di fascino, nonostante sia ormai superato il suo approccio che - con le parole di Gorlée - è metalinguistico. Frutto di questa particolare disposizione d'animo, ad esempio, è la convinzione che non si può dedurre il senso di una parola senza la mediazione del codice linguistico. In nome di essa Jakobson scomoda addirittura Bertrand Russell, criticando ed avversando l'affermazione di questi, secondo cui "nessuno può comprendere la parola formaggio, se prima non ha un'esperienza non linguistica del formaggio". È quindi opinione di Jakobson che
chiunque capirà la parola italiana formaggio se sa che in questa lingua tale parola significa "alimento ottenuto con la fermentazione del latte cagliato" e se ha una conoscenza linguistica di "fermentazione" e "latte cagliato". Noi non abbiamo mai bevuto ambrosia o nettare e abbiamo un'esperienza soltanto linguistica delle parole ambrosia, nettare e dèi [...]
Il ragionamento di Jakobson, in effetti, sembra filare. Oso ipotizzare, però, una situazione limite: chi ha esperienza meramente linguistica del formaggio, cosa riconoscerà come tale se gli viene posta di fronte una ruota di Grana Padano, una scamorza e un caciocavallo? E ancora: sarebbe in grado questa stessa cavia di identificare nettare e ambrosia, se esistessero e ne venisse a contatto? Parrebbe di no. Ciò che, a mio parere, Jakobson ignora (se con malizia o meno, non saprei) è il rapporto a tre tra segno, significato e referente. Non esiste significato senza segno, ma al contempo, non esiste significato senza referente. Nel momento della comprensione di un segno si compie un duplice lavoro: se ne stabiliscono i rapporti interni con gli altri segni e significati e il rapporto con la realtà esterna al fatto linguistico. Mi verrà, ora, sicuramente rimproverata una povertà di capacità d'astrazione: dov'è la realtà di ciò che non esiste, dell'inaudito, del mai visto? A ben vedere, però, anche ciò che non esiste vive di una sua concretezza, non però nel mondo del tangibile, ma della fantasia. Se al momento della comprensione di un segno il rapporto diretto con il suo referente latita, esso viene creato parimenti, ma con un'ombra, un'immagine costruita ad hoc nella nostra fantasia, in attesa della costituzione d'un legame più certo e stabile, all'incontro con esso. Ecco perché non rigetto completamente la constatazione di Jakobson: è indubbiamente necessaria una conoscenza linguistica del formaggio per la sua piena comprensione, ma allo stesso tempo non si può prescindere dal suo rapporto con l'oggetto reale se si ha intenzione per lo meno di servirsene concretamente.
Andando avanti, la novità più "commerciale" presentata da Jakobson è la sua distinzione di tre categorie della traduzione: intralinguistica, interlinguistica, intersemiotica. La traduzione vera e propria è quella interlinguistica, da una lingua all'altra; per intralinguistica s'intende invece una riformulazione nei termini della stessa lingua del testo originale, come può essere una parafrasi (ad es. il celebre Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino); l'intersemiotica è quella che si serve di segni non linguistici per interpretare segni linguistici, in altre parole, una trasposizione in altri codici della comunicazione (musica, film, ma anche fumetti ad esempio). L'unica pecca di questa brillante intuizione non dipende dal suo autore, ma dalla sua natura intrinseca: in molti hanno "comprato" e conseguentemente citato Jakobson, ma in pochissimi si sono dedicati ad altri generi di traduzione che non fosse quella interlinguistica. Ecco spiegato il mio "commerciale" di qualche riga fa: è il paradosso di un romanzo di successo, con vendite da capogiro, ma che nessuno ha mai letto. Lo stesso Jakobson, continuando all'interno del saggio, dedica più spazio alla traduzione propriamente detta, soffermandosi sul mezzo linguistico e coniando una massima dal valore inestimabile:
Le lingue differiscono essenzialmente per ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere.
Con Jakobson, quindi, s'avvia ufficialmente la stagione delle riflessioni sulla teoria della traduzione, autonome rispetto ad un contesto d'utilità pratica, ma ancora troppo dipendenti dalla grande branca della Linguistica, di cui la traduzione è considerata figlia, non sorella.
Arrivederci alla prossima puntata, dunque, dedicata alle riflessioni di uno dei più grandi studiosi viventi: Umberto Eco.