Federico Baccomo è nato
a Milano nel 1978. Nel 2009 ha pubblicato Studio illegale, ispirato all’omonimo blog aperto nel 2007. Nel 2011 è uscito La gente che sta bene. Entrambi i romanzi
sono stati pubblicati da Marsilio Editore e hanno riscosso grande successo di
pubblico. Dal primo è stato tratto un film intitolato Studio illegale, diretto da Carteni e che ha per protagonista Fabio
Volo. Anche da Gente che sta bene è
in preparazione un film che vedrà Claudio Bisio nei panni del personaggio
principale.
Dal
blog ai libri. Cambiano le strutture narrative, le modalità di comunicazione.
Com’è stato il passaggio dalla forma breve del post a quella più strutturata
del libro? Il pubblico di riferimento è rimasto lo stesso?
È un passaggio meno
scontato di quanto sospettassi quando ho deciso di affrontarlo. Un blog è
composto di brevi pezzi, più o meno slegati l’uno dall’altro, da offrire
gratis, per essere letti principalmente durante le ore di lavoro. Un romanzo si
posa in un’altra collocazione: è una lunga storia che ha bisogno di una
struttura solida, coerente, che un lettore compra per dedicargli il suo tempo
libero. In questo senso, un romanzo chiede molto di più sia a chi lo scrive,
sia a chi lo legge. Ci vogliono una dedizione, un impegno, una passione
maggiori, da parte di entrambi. La speranza è che, se lo scrittore si è sentito
di affrontare questa piccola impresa, possa sentirsi di seguirlo anche il
lettore.
In
un’intervista hai dichiarato: “Non ho paura di far ridere, non voglio che il
lettore possa annoiarsi”. Credo questa sia la cifra più caratteristica della
tua scrittura, che prende corpo soprattutto nei dialoghi brillanti. Da quale
esigenza nasce? Ci sono dei testi o degli scrittori che hanno, in questo senso,
segnato il tuo percorso e che fungono da punto di riferimento?
Più che un’esigenza è
una sorta di attitudine, vien fuori così, senza che mi sia chiara la ragione.
Mi piace che quello che scrivo possa strappare il classico sorriso, persino una
vera e propria risata, e mi piace che possa farlo su argomenti e situazioni che
generalmente non danno motivi per ridere. In questo senso, mi viene in mente una definizione di umorismo di uno scrittore comico
americano, premio Pulitzer, Dave Barry, che sostiene che l’umorismo sia la
misura del nostro renderci conto di essere intrappolati in un mondo quasi
totalmente privo di ragione, e la risata è il modo in cui esprimiamo la nostra ansia
di fronte a questa consapevolezza. Non so se sia davvero così, ma mi sembra ci
sia più di un fondo di verità. E in qualche modo mi pare spieghi l’opera di
diversi dei miei autori per così dire di riferimento, uno per tutti Woody
Allen.
Giuseppe
Sobreroni, uno dei personaggi più riusciti di Studio illegale, è il protagonista di La gente che sta bene. Se
nel primo romanzo hai adottato la prospettiva del giovane Andrea Campi - figura
che sembrerebbe più vicina a te – nel secondo guardi il mondo con gli occhi di
Giuseppe, “un uomo che ce l’ha fatta” e che, in molti casi, il lettore troverà
odioso. Credo sia stato un bel cambio di punto di vista.
Quello è stato un
capovolgimento che m’ha divertito parecchio. Giuseppe sta agli antipodi
rispetto ad Andrea. Di fronte all’empatia che offriva quest’ultimo, alla sua
disillusione, allo sguardo ironico e più o meno lucido, all’atteggiamento un
po’ arrendevole, Giuseppe è un personaggio che non cerca simpatia, è un illuso,
un ingenuo, uno che non cessa mai di darsi da fare. E in più è arrogante,
infantile, vanesio, a tratti razzista, omofobo, qualche volta stupido. Tutte
caratteristiche che si cerca di non infilare nella descrizione in un sito di
appuntamenti, ma che, per quanto mi riguarda, rendevano affascinante il
mettermi nei suoi panni. Da un lato, un po’ per sfida, dall’altro un po’ per la
curiosità di andare a scoprire chi era, indagare tutto quello che si liquida
dietro un cliché come “la gente che sta bene”. E mi vien da dire,
paradossalmente, che sia proprio Giuseppe, tra tutti i personaggi di cui ho
scritto, il più vicino alla mia sensibilità. Come si dice, quando guardi
nell’abisso, ecc..
Hai
collaborato con Francesco Bruni, Alfredo Covelli e Umberto Carteni alla sceneggiatura del film Studio illegale, attualmente nelle sale. Come hai vissuto il contatto con
quest’altra forma di scrittura?
Uno non se lo aspetta,
ma è un tipo di scrittura spiazzante all’inizio, molto codificata, piena di
rigidità strutturali e narrative. C’è di buono che, per me che amo in
particolare i dialoghi, alla fine s’è trattato fondamentalmente di studiare la
cornice, di adattarsi a quei canoni. È stato un approccio da turista, di quelli
che si guardano in giro, studiano, cercano di capire. E piano piano,
l’orientamento si fa un poco più solido.
Nel
film sono stati introdotti dei cambiamenti rispetto al libro, scelta che
ritengo assolutamente giustificata dalla diversità di strategia comunicativa
del cinema rispetto al testo scritto. Com’è stato trovarti di fronte a un film
che parte dalle tue idee e le reinterpreta? C’è stata quella sorta di
“straniamento” che molti scrittori provano nel vedere le proprie creazioni
adattate a nuovi linguaggi?
Più dello straniamento,
in me prevale la curiosità di vedere che cosa verrà fatto del mio materiale. Il
cosiddetto “tradimento” è un rischio implicito nel passaggio da una forma di
rappresentazione a un’altra. Se poi si tratta di un libro in prima persona, in
cui la sua piccola forza viene dalla voce dell’io narrante, quel tradimento non
è solo da mettere in conto, ma quasi da augurarselo. A me, poi, manca quel tipo
di gelosia per i miei personaggi o le mie storie. La sensazione è quella di
avergli già dato la forma che volevo, tutte le declinazioni che possono
seguirne mi pare che finiscano solo per arricchire quel mondo, ma, anche nel caso
in cui dovessero fraintenderlo, non gli possono togliere nulla.
Milano,
città in cui vivi, gioca quasi un ruolo da protagonista all’interno dei
romanzi, con i suoi affari, le vetrine, gli aperitivi, i mezzi pubblici
affollati. Quanto ha influenzato la genesi dei testi? Sembra che i tuoi
personaggi siano indissolubilmente legati alla città, al punto da rendere
difficile immaginarli altrove.
Ogni tanto,
semplificando, mi piace raccontarmi che Milano è la vera protagonista di quello
che scrivo, gli spunti nascono tutti dalla gente, dalle situazioni che incrocio
ogni giorno, e che credo trovino il proprio posto solo in questa città. C’è un
episodio che può dire qualcosa su questo punto. Il primo paese ad aver tradotto
Studio illegale è stata la Corea. Tralasciando
le ragioni imperscrutabili di questa scelta, quando mi è arrivata la copia
staffetta ho visto che i singoli capitoli erano stati titolati, cosa che non
c’era nell’originale. Così, me li sono tradotti (male) con il traduttore di
Google ed è uscita una serie di bizzarrie, fino a un titolo che suona così: Milano è solo l’inizio della notte.
Ecco, da allora questo titolo m’è entrato in testa e non si sposta, è il genere
di titolo sotto cui potrei raccogliere tutto quello che ho scritto.
I
tuoi libri sono stati pubblicati da Marsilio, casa editrice che sta sempre più
dando prova, attraverso le sue scelte editoriali, di saper scommettere su
autori giovani e su testi di qualità che incontrano il favore del pubblico. Che
tipo di scambio si è creato con il tuo editore?
Marsilio ha fatto una
scommessa non da poco nel provare a tirarmi dentro i suoi progetti. In fondo,
quello che di concreto avevo da proporre erano qualche battuta più o meno
divertente e un seguito di lettori affezionato ma comunque non tale da
garantire un successo. Ho cercato di ripagare al meglio quella fiducia. Devo
riconoscergli anche un altro merito: io temo di non avere un gran bel
carattere, nelle cose che faccio ci metto molta presunzione, un po’ – mi dico –
perché ci credo, in realtà molto spesso è solo una faccenda di indole. Per cui
basta che mi si dica che ci sarebbe da aggiungere una virgola o da cambiare un
aggettivo, e finisce che mi incupisco. Anche in questo, m’è parso di trovare un
editore rispettoso, capace al momento giusto di dirmi: “sai che c’è, fai un po’
come cazzo ti pare”. Un atteggiamento che apprezzo.
Hai
dichiarato che stai lavorando a un nuovo romanzo. Esiste un rapporto con i due
precedenti? Se si, come pensi siano collegati?
Non c’è un vero legame,
non nel senso che tiene insieme i primi due romanzi. Stavolta sto cercando di
muovermi in un altro ambiente, con personaggi molto diversi, anche se poi
l’approccio resta lo stesso, forse un pochino più cattivo. La sensazione è
quella di essere sulla strada buona, poi manca ancora un bel po’ alla fine, ma
intanto provo ad adagiarmi su questi piccoli allori.
Parliamo
di Federico Baccomo lettore. Cosa ami leggere? Sei un fan della lettura
digitale o preferisci la tradizionale su carta?
Dico la banalità: non
ho generi che amo più di altri, che sia alta letteratura o basso
intrattenimento, mi piace leggere i libri buoni, quelli che mi divertono, che
mi fan pensare, che mi commuovono, che mi fanno desiderare di girare un’altra
pagina. Ho scoperto da qualche anno la gioia di abbandonare i libri che, molto
semplicemente, non mi piacciono, ed è una gioia che tendo a negarmi sempre meno
spesso, di dieci che ne comincio ne finisco tre o quattro. Quanto allo scontro
tra digitale e cartaceo, la mia sensazione è che sia un discorso un po’
teorico, il gioco della conservazione delle tradizioni. Nessuno ha mai discusso
della scomparsa del fax: quando sono arrivate le e-mail e i pdf, s’è andati
avanti senza pensiero, e oggi vien da ridere quando qualcuno dice: “me lo mandi
via fax”. Io ho un e-reader che uso spesso ma, quando dico che sto leggendo un
libro, con tutte le sue belle pagine di carta, ancora non vedo gente che ride.
C’è un senso che mi sembra resistere.
Dallo
studio (il)legale ai libri. Vivi la scrittura come un mestiere a tempo pieno?
So che le etichette non sono sempre efficaci, però ti piace definirti
“scrittore di professione”?
Diciamo che, oggi, mi
guadagno la vita con quello che scrivo. La speranza è di continuare a farlo
ancora per un po’, ma scrittore
continua a sembrarmi una parola talmente grossa che, se proprio devo definire
quello che faccio, può essere sufficiente limitarsi all’azione: scrivo di
professione. Poi, ecco, se qualcuno si ostina a dirmi “scrittore” non mi
offendo, ma che si prenda la responsabilità di quel che dice.
intervista a cura di
Claudia Consoli