Le città invisibili
di Italo Calvino
Mondadori, 2012 (I ed. Einaudi, 1972)
166 pp.
Le
città invisibili è uno di quei classici che resiste al
tempo e riscuote ancora oggi un’enorme fortuna. Si tratta di un’opera onirica,
spiazzante e inclassificabile: sono cinquantacinque le città invisibili costruite da Italo Calvino con la leggerezza di un architetto fantastico.
Il libro è nato a poco a poco, una città ogni tanto, a seconda dell’estro e
dell’ispirazione giornaliera dell’autore che tra il 1964 e il 1970, durante il
suo soggiorno parigino, mise su carta impressioni, visioni e annotazioni. Lo
scrittore ligure pensò di integrare e intervallare questi ritratti di città
immaginarie con un dialogo tra due
personaggi molto particolari: Kublai Khan, imperatore dei Tartari e potente
che tutto possiede, e Marco Polo, il più grande viaggiatore della letteratura
che possiede soltanto la proprietà del racconto. Il mercante veneziano, nel
raccontare all’imperatore le sue “città mentali”, si esprime attraverso le
parole, ma riesce a farlo anche solo con gesti, salti, grida di meraviglia e di
orrore, latrati di animali, o oggetti (tamburi, pesci salati, conchiglie,
ventagli, noci di cocco, piume di struzzo) che estrae dalle sue bisacce e
dispone come pezzi degli scacchi, improvvisando in base a essi straordinarie
pantomime, che il sovrano interpreta a proprio piacimento, girando con la mente
e con l’immaginazione intorno al racconto di Marco. Nei viaggi mentali dell’uno
e nell'ascolto e nelle domande insistenti e quasi ossessive dell’altro tutte le
miniature di città trovano così il loro posto e il loro senso, facendo de Le città invisibili uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento.
Nel
libro non si trovano città
riconoscibili, sono tutte città inventate, chiamate da Calvino ognuna con un
nome di donna: c’è Isidora con il muretto dei vecchi che guardano passare la
gioventù; Bauci, città che si trova sulle nuvole; Eufemia, in cui gli abitanti
si scambiano racconti; Cloe, in cui gli sconosciuti si scambiano sguardi
lussuriosi; Zemrude, città che dipende dall’umore di chi la guarda; Adelma, in
cui si possono rivedere i parenti e gli amici morti. E poi ancora tanti altri
piccoli gioielli di “città leggere”, edificate da Calvino per mezzo di una felice fantasia onirica e visionaria
che suscita continue ed emozionanti sorprese nel lettore.
Lo scrittore ligure nel suo libro non ha voluto soltanto evocare un’idea atemporale di città,
ma anche una discussione sulla città moderna. Le città invisibili si configurano infatti come un ultimo poema d’amore alle città nel
momento in cui diventa sempre più difficile viverle a pieni polmoni, a causa di
enormi problemi come la distruzione dell’ambiente naturale e l’inquinamento.
Nel libro si polemizza contro la trasformazione recente delle città di
provincia in metropoli ad alto tasso di tecnologia e d’inquinamento che
danneggiano in modo irreversibile il paesaggio e l’ambiente. Per Calvino la città ideale sembra essere molto
lontana dalle odierne metropoli "futuristiche", lanciate in un
estenuante cambiamento verso il nuovo, che non hanno alcun riguardo nei
confronti dell’ambiente e della natura; solo una città che consenta ai suoi
abitanti di vivere compiutamente in perfetta sintonia con la natura,
rispettandola e godendone i frutti, può essere ritenuta una città vivibile. Così
Calvino, nell’intento di evocare città migliori di quelle odierne, si affida
alla sua immaginazione sfavillante e alla sua scrittura cristallina, leggera e
giocosa, tramutando le città invivibili di oggi in quelle surreali del libro,
città più belle che in qualche
momento raggiungono la perfezione.
Marco Adornetto
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