La vicenda personale e pubblica di Salman
Rushdie è prova che l’autore indiano non condivida del tutto l’immagine
tradizionale della “casa”, quella a cui sempre si fa ritorno perché, si sa,
nessun posto è bello come casa propria. Nel saggio Il
Mago di Oz (1992), un’acuta e divertente riflessione sul libro di L. Frank Baum ma
soprattutto sul film di Victor Fleming, Rushdie ribalta il mito della bambina dalle
scarpette rosse (o argentate?) che, nonostante le meravigliose avventure,
manifesta l’ultimo vero desiderio di tornare a casa, dagli zii, nel triste
Kansas.
Quale bambino vorrebbe vivere in un luogo così desolato, con degli zii senza nulla da offrire, senza prospettive in cui sperare, con l’unica consolazione di un cagnolino minacciato di morte da un’arpia? Ma Dorothy Gale non è un nome a caso. L’impeto del ciclone che sradica la casa è la sua ribellione, la fine della sua infanzia perché Oz è il viaggio verso la vita, la fuga, la scoperta di se stessi. Zia Em e io zio Henry dovranno rassegnarsi che quello di Dorothy non è stato un sogno. Oz esiste davvero. Per tutti.
Quale bambino vorrebbe vivere in un luogo così desolato, con degli zii senza nulla da offrire, senza prospettive in cui sperare, con l’unica consolazione di un cagnolino minacciato di morte da un’arpia? Ma Dorothy Gale non è un nome a caso. L’impeto del ciclone che sradica la casa è la sua ribellione, la fine della sua infanzia perché Oz è il viaggio verso la vita, la fuga, la scoperta di se stessi. Zia Em e io zio Henry dovranno rassegnarsi che quello di Dorothy non è stato un sogno. Oz esiste davvero. Per tutti.
Edizione di riferimento: S. Rushdie, Il Mago di Oz, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2000
[…] Il Mago di Oz è un film la cui forza propulsiva è proprio l’inadeguatezza degli adulti, anche di quelli buoni, e il fatto che la loro debolezza obbliga i bambini a prendere in mano il proprio destino e, ironicamente, a crescere da soli. Il viaggio dal Kansas a Oz è un rito di passaggio da un mondo in cui zia Em e zio Henry, ossia i sostituti dei genitori di Dorothy, si rivelano incapaci di aiutarla a mettere in salvo il suo cagnolino Totò dalla rapace Miss Gulch, a un altro in cui tutti sono a misura di Dorothy e in cui lei stessa non è mai trattata da bambina bensì come un’eroina. […] La debolezza di zia Em e dio zio Henry di fronte al desiderio di Miss Gulch di far fuori il cagnolino Totò conduce Dorothy a pensare in modo infantile, ossia a scappare di casa, a fuggire lontano. Ecco perché, quando il tornado si abbatte, lei non si trova assieme agli altri al sicuro nel rifugio e viene letteralmente soffiata verso una via di fuga che altrimenti non sarebbe mai stata in grado di immaginare. Più avanti, tuttavia, quando si trova alle prese con la debolezza del Mago di Oz, non fugge, anzi si getta nella mischia, dapprima contro la Strega, e poi contro il Mago stesso. L’inefficacia del Mago è una delle numerose simmetrie del film, e fa il paio con la debolezza della famiglia di Dorothy: il punto nodale, però, è la differente reazione di Dorothy nell’uno e nell’altro caso.
Il Kansas descritto da L. Frank Baum è un luogo deprimente, in cui tutto, fin dove arriva lo sguardo, è grigio. Grigie sono la prateria e la casa in cui Dorothy vive. […] È al di fuori di questo grigiore – che tutto avvolge e assomma di quello squallido mondo – che arriva la calamità. Il ciclone altro non è che tutto quel grigio accumulato, turbinante e sguinzagliato, per così dire, contro se stesso. […] C’è però un altro modo di interpretare il tornado. Dorothy infatti ha un cognome: Gale. E per molti aspetti Dorothy è effettivamente una tempesta che soffia da quel piccolo angolo di nulla chiedendo giustizia per il suo cagnolino mentre gli adulti cedono mestamente il passo alla potente Miss Gulch […]
Il Kansas del film è un po’ meno irrimediabilmente tetro del Kansas del libro. […] A ripensarci, però, si tratta di un’ambientazione più inquietante, perché vi aggiunge la presenza di un’entità realmente malvagia, ossia l’angolosa Miss Gulch, con quel profilo che potrebbe trinciare un quarto di bue, seduta rigidamente in sella alla sua bicicletta, la testa coronata da un cappello che sembra un budino di prugne o una bomba, decisa a reclamare la protezione della legge nella sua crociata contro Totò. Grazie a Miss Gulch, il Kansas del film è informato non solo dalla tristezza della cruda povertà, ma anche alla cattiveria degli aspiranti assassini di cani.E questa sarebbe la casa “bella come nessun posto al mondo”? Sarebbe questo il paradiso perduto che dovremmo preferire (come Dorothy) a Oz?
Laggiù in Kansas, zia Em sta somministrando la sgridata che prelude a uno dei più immortali momenti della storia del cinema. “Tu ti agiti per delle sciocchezze! Trovati un posto dove stare tranquilla, senza cacciarti nei guai!” […] Chiunque si sia bevuto la storiella raccontataci dallo sceneggiatore sulla superiorità della “casa” rispetto al “lontano da casa”, e crede di conseguenza che la morale del Mago di Oz sia leziosa come un centrino con su ricamato “casa dolce casa”, farebbe bene ad ascoltare il tono struggente di desiderio nella voce di Judy Garland, mentre rivolge il suo faccino al cielo. […] Nel suo momento emotivo più potente, questo è senza ombra di dubbio un film sulla gioia di partire, di lasciare il grigiore e fare ingresso nel colore, di ricrearsi una nuova vita nel “luogo dove non ci sono guai”. Over the Rainbow è, o dovrebbe essere, l’inno di tutti gli emigranti del mondo, di tutti quelli che vanno alla ricerca di un luogo in cui “i sogni che osi sognare realmente si avverano”. È una celebrazione della Fuga, una grande peana dell’Io Sradicato, un inno - anzi l’inno - all’Altrove.[…] And now those magic slippers will take you home in two seconds… Close your eyes… click your heels together three times… and think to yourself… there’s no place like…
Un momento.Un momento!
Com’è che alla fine di questo film radicale e corroborante, che insegna nel modo meno didattico possibile a costruire ciò che abbiamo, a dare il meglio di noi stessi, ci viene propinata questa piccola omelia conservatrice? Dobbiamo davvero credere che Dorothy non abbia imparato altro, nel suo viaggio, se non che non aveva alcun bisogno di intraprenderlo? Dobbiamo accontentarci del fatto che adesso accetti le limitazioni della sua vita familiare e che viva secondo la nozione che tutto ciò che non ha non è una perdita? È giusto così? Bè, senza offesa, Glinda, che orrore.Tornata a casa nel bianco e nero, con zia Em e zio Henry e la vil gente meccanica riunita intorno al suo letto, Dorothy dà così inizio alla sua seconda rivolta, ribellandosi non solo all’indisponente condiscendenza dei suoi familiari, ma anche a quella degli sceneggiatori e al moraleggiare sentimentaleggiante dell’intero studio system di Hollywood. “Non è stato un sogno, io ero davvero, in un posto reale” strilla penosamente. “Era tutto vero, e io ero in un posto reale insomma. Insomma, nessuno di voi mi crede?”
È così che alla fine Oz diventa la casa; il mondo immaginato diventa il mondo reale, come avviene per tutti noi, perché la verità è che una volta che abbiamo abbandonato l’infanzia e abbiamo iniziato a dare una fisionomia alla nostra vita, armati solo di quello che siamo e abbiamo, comprendiamo anche che il vero segreto delle scarpette rosse non è che “nessun posto è bello come casa mia”, ma piuttosto che la nostra casa non esiste più; a eccezione, ovviamente, della casa che ci creiamo noi, o quella costruita apposta per noi a Oz: che è ovunque e in ogni luogo, fuorché dove abbiamo cominciato.
A cura di Martina Pagano