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Amos Oz, D'un tratto nel folto del bosco

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D’un tratto nel folto del bosco
di Amos Oz
Feltrinelli, 2007
pp. 114


D’un tratto nel folto del bosco è una delicata e poetica fiaba che Amos Oz ha dedicato ai suoi quattro nipotini. In epigrafe si legge: “Grazie a Dean, Nadav, Alon e Yael, che mi hanno aiutato a raccontare questa storia e vi hanno contribuito con idee proposte e colpi di scena”.
Parla di un cupo villaggio attorniato da boschi e montagne.

Il paese era grigio, triste. Tutt’intorno solo montagne e boschi, nuvole e vento. Quasi ai arrivavano dei visitatori, né tanto meno ospiti di passaggio […] Di tanto in tanto capitavano un venditore ambulante, un artigiano, qualche volta un mendicante smarrito. Ma nessun viandante si fermava più di due notti, perché il villaggio era maledetto, oppresso da uno strano, totale silenzio.
Un tempo gli uomini vivevano circondati da animali, ma una notte di molti anni prima, questi sono tutti spartiti, diretti chissà dove. La cupa cittadina custodisce un segreto che gli adulti conoscono e che, in tutti modi, cercano di tenere nascosto ai più piccoli.
Mati e Maya, due bambini del paese, sono decisi a scoprire perché nessuno vuole raccontare cosa è successo, cosa è cambiato. Vogliono capire perché, alle loro domande, si fanno tutti scuri in volto.
I genitori preferivano negare, o insabbiare nel silenzio la questione. Non parlarne mai. Soprattutto in presenza dei bambini.

Nonostante i tentativi di dimenticare, il passato ha lasciato, nella mente e nel cuore degli abitanti, tracce che prendono forma attraverso i ricordi, i racconti nostalgici e i comportamenti di molti di loro. La maestra Emanuela non rinuncia a spiegare “come è fatto un orso, come respirano i pesci e che versi fa la iena di notte”, il pescatore Almon incide nel legno figurine di animali da regalare ai bambini, Lilia -la madre di Maya- lascia cadere briciole di pane nella speranza che qualche uccellino torni a beccarle, Danir il tegolaio, poco dopo il tramonto, raggruppa i giovani del villaggio per raccontare loro di quella sera in cui tutti gli animali abbandonarono il paese in carovana. Nel cupo villaggio si insegna ai bambini ad aver paura della notte: quando cala il buio nessuno esce più di casa per timore di incontrare Nehi, il demone dei monti, che scende dal suo castello per catturare le creature in cui si imbatte e portarle nel suo oscuro rifugio.
“Mai, mai e poi mai, assolutamente mai,” dicevano i genitori ai loro figli, “mai per niente al mondo potete uscire di casa dopo il calar del buio”. Se un bimbo chiedeva ai suoi genitori come mai, quelli si facevano scuri in viso e rispondevano che la notte è assai pericolosa. Il buio un crudele nemico. 
Ma soprattutto si insegna ai bambini a fuggire i diversi, a evitarli e deriderli pubblicamente. È ciò che avviene con il piccolo Nimi, un “bimbo un poco sbadatello, quasi sempre con il moccio al naso” che, da quando è tornato dalla sua fuga nel bosco, si è ammalato di nitrillo, cioè ha deciso di esprimersi solo nitrendo come un cavallo.
Ci vorranno coraggio e determinazione per andare nel bosco alla ricerca della verità. La foresta, luogo pericoloso e salvifico insieme, finirà per accogliere i due piccoli che impareranno l’importanza del ricordo e affronteranno con audacia l’impresa di raccontare la verità a tutti, specialmente agli adulti che temono il diverso e lo emarginano.
Tra fiaba, racconto allegorico e romanzo breve, Amos Oz regala un testo molto attuale, perfetto per grandi e piccini. Affronta temi importanti come l’altruismo, il valore etico della memoria, da diverse prospettive. Ha una morale impegnativa, ma si legge tutto d’un fiato. Attraverso immagini suggestive – la componente “coloristica” della scrittura è molto forte – e poetici personaggi, l’autore conduce nel vivo di un mistero, di un’inquietudine dell’anima. Con la sensibilità e la dolcezza del suo racconto, raffigura perfettamente il pericolo di un mondo in cui l’uomo ha smarrito la tolleranza. E di questo pericolo, il villaggio accanto al bosco, rimasto tristemente senza gli amici animali, è un perfetto emblema.



Claudia Consoli