Le
avventure di Pinocchio
Carlo Collodi
Cappelli, 1964
Il fiorentino Carlo
Lorenzini (1826 – 1890), più noto al pubblico di grandi e piccini col nome di
Collodi, mutuato dal paese materno, fu patriota delle guerre d’indipendenza ma anche
libraio, recensore, editore. Tradusse le fiabe francesi, fra le quali quelle
celeberrime di Perrault. Diviso fra evasione e
impegno, fra satira caricaturale della società e fuga nel fiabesco e nella
fantasia, redasse numerosi testi ma il più famoso, quello per il quale è
rimasto nell’immaginario collettivo, è Le
Avventure di Pinocchio, scritto nel 1881 e pubblicato nel 1883. Con questo
romanzo, uscito a puntate sul Giornale per i bambini, è stato capace di
creare un personaggio immortale, quasi un archetipo junghiano: il burattino di
legno che diventa bambino alla fine della storia come ricompensa per la buona
condotta, modello del discolo dal cuore tenero, del bugiardo fantasioso. La
diffusione del testo è stata enorme, da quando i diritti dell’opera sono scaduti,
non si contano nemmeno più le traduzioni in tutte le lingue del mondo. Molte
espressioni del libro sono diventate di uso comune, come “ridere a crepapelle”
(dalla scena del serpente che muore per le risate) o “le bugie hanno le gambe
corte e il naso lungo”, o “acchiappacitrulli”.
In bilico fra
romanticismo e verismo, fra romanzo dai toni gotici (vedi l’impiccagione e gli
spaventosi conigli becchini) e le miserie popolari dickensiane, è essenzialmente
una narrazione picaresca con intento morale. La storia si svolge in un luogo
imprecisato, a nord di Firenze, in un paese povero, animato da personaggi quasi
verghiani, che conoscono una fame cronica,
“Intanto incominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e difatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello.Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno di quattro dita.”
La pentola dipinta è simbolo
di un mondo di gente che s’ingegna con la fantasia per sopperire alle mancanze
e a una vita di stenti, che trova buone anche bucce e torsoli perché li
condisce col sale dell’appetito, che insegna ai propri figli a mettere da parte vizi, capricci ed esigenze ma,
soprattutto, è un simbolo d’immaginazione creativa, di libertà dal bisogno
contingente.
A differenza del quasi
contemporaneo Cuore di Edmondo de
Amicis, del 1886, i toni romantici sono stemperati e gli ammonimenti morali
fusi nelle figure, nei personaggi, nelle scene, nelle avventure. Il libro si
basa tutto sui due poli dell’ordine e del disordine, fra il movimento anarcoide
del burattino e uno statico rientro nei ranghi, fra la via maestra della morale
e i viottoli secondari della fantasia.
“Se fossi stato un ragazzino perbene, come ce n’è tanti; se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa di un contadino.”
L’insegnamento morale,
l’educazione, i gendarmi, il giudice, la fata turchina, il “povero babbo”, tutto
tende a istillare nel burattino sensi di colpa, a riportarlo sulla retta via, a
reintegrarlo nel sistema, a fargli abbandonare l’infanzia per la maturità, per
un grigio divenire uomo. Nella prima versione Pinocchio moriva, come
conseguenza della sua dissennatezza e il romanzo si concludeva con la sequenza
dell’impiccagione. Tuttavia, quelle stesse figure che assolvono il compito di
guida e d’indirizzo morale, sono anche fortemente caricaturali e lasciano
trapelare l’insofferenza dell’autore per un certo tipo di educazione rigida e
soffocante del talento del bambino. E,
infatti, l’accoglienza del testo non fu immediata, ne fu sconsigliata la
lettura ai ragazzi di buona famiglia, in particolare suscitò scandalo il
coinvolgimento dei carabinieri.
Ma quanta nostalgia
prova il lettore, e anche l’autore stesso, per il burattino vivacissimo,
bugiardo - dove per bugia intendiamo anche il libero dispiegamento di una
fantasia creatrice e redentrice della misera realtà – il burattino dagli occhi
maliziosi, dalle gambe ballerine, che svicola e si caccia neri guai?
- E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?- Eccolo là, - rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto. Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l'ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: - Com'ero buffo, quand'ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!
La discesa nel ventre
della balena può apparire ai lettori odierni un simbolo ovvio ma non lo era per
quei tempi. Ci sarebbero voluti ancora tredici anni, infatti, perché Freud parlasse
di psicanalisi e inconscio. Il linguaggio dell’opera
è vivo, popolare, ricco di fiorentinismi e di proverbi poi entrati nel
linguaggio comune.
Pinocchio di Collodi è
stato uno dei libri più imitati. Si sviluppò anche una letteratura parallela –
quasi una fanfiction – con protagonista
il burattino, che prese il nome di Pinocchiate”. Nel '36 Aleksej Tolstoj ne scrisse una
versione alternativa che si discosta molto dall’originale. Nel 1940 Disney ne
fece una celebre trasposizione a cartoni animati. Da ricordare anche l’adattamento
de Le fiabe sonore dei fratelli Grimm, con la voce di Paolo Poli, lo
sceneggiato di Comencini del 1972 e, più recentemente, il film di Benigni.