Comunicare a distanza di verso:
Patrizia Valduga e Giovanni Raboni
-- spunti per una futura indagine --
Il dialogo in versi comincia poco dopo la conoscenza
tra Raboni e Valduga nel 1981, ed è un legame che influenza la reciproca
produzione poetica, per contenuti, forma e lessico. Non si tratta di travasi
diretti, ma di interazioni in versi, di tale portata che meraviglia l’assenza
ad oggi di uno studio sistematico che compari le due esperienze poetiche.[1]
In questa sede, ovviamente, non si può che avanzare qualche suggestione, che si
concentrerà su come la comunicazione del desiderio non si fermi all’interno
della produzione del singolo poeta, ma dia prova di intertestualità. Si è
pertanto circoscritta la ricerca ai versi di Raboni scritti nei primi due anni
di conoscenza. Il primo accenno è nel poemetto dedicato apertamente a Patrizia
Valduga: Le nozze, uscito su «Nuovi
Argomenti» nel gennaio-marzo 1982, quindi confluito nella raccolta dello stesso
anno Nel grave sogno.[2]
Qui i riferimenti si disperdono, vista la natura eterogenea della raccolta, ma
pare di non poco conto la precoce riflessione sulle parole quali idioletto
privato in Serenata. Si noti come la
parentesi non indichi la natura addizionale del contenuto, ma anzi a lo stringa
in una dimensione privata:
(Le cose parlate fra noi due
durante e dopo l’afasia
le cose dette e non dette
fra te e la persona che sono
fra me e la persona che sei
saranno poche o tante, mi domando,
per viaggiare al tuo seguito
per cambiare o rincorrere con te
aereo, nave, fuso orario, età?) (519)
Tuttavia, è su Canzonette mortali[3]
che si arriva a una raccolta pienamente
intrecciabile a quelle della compagna e, pertanto, si limiterà l’indagine a
questa raccolta. La prima sezione eponima ospita dieci liriche madrigalesche di
misura decrescente, da undici a un solo verso, risalgono al periodo tra il 1982
e l’83. I dialoghi sono rari: predomina la voce dell’io-lirico, rivolto a un
“tu” mai rivelato ma costantemente presente. Non si tratta di un monologo, ma
di una confessione a cuore aperto, che si interroga sul tempo in cui l’ardore
sarà spento e si reggerà solo sulla stampella dell’affetto:
Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro
e solo del futuro ho nostalgia,
mai del passato,
ricordo adesso con spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d’essere tanto amata o per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso di godere. (575)
A una singolare e paradossale nostalgia del
futuro dell’incipit, si alterna la vividezza della passione, indice di un
rapporto amoroso prima ancora che sessuale: non è mai una poesia in diretta, ma
un ripensamento che procede per stravaganze e dettagli feticistici
interiorizzati.
Dunque, non leggiamo sensazioni ma percezioni,[4] talvolta a distanza di tempo e di luogo (595), custodite con adorazione e levità («Solo questo domando: esserti sempre,/ per quanto mi sei cara, leggero», 583); o parole rapite alla realtà, riproposte nella loro spudorata immediatezza (601), senza i tarli mortiferi della poesia valdughiana. Non mancano tuttavia incertezze, legate alla differenza d’età (576), alla gelosia, alla paura della mancanza e della perdita («so bene che mancarti,/ non perderti, era l’ultima sventura», 580).
Nel ticchettio inesorabile del tempo si percepisce un lento e inevitabile lasciarsi, dovuto all’approssimarsi della morte che il poeta avverte su di sé, «fermo» nella contemplazione «incantata» del presente (577). Talvolta, singolarmente, alcune poesie si presentano come risposte a domande assenti nella raccolta, ma ricostruibili leggendo gli interrogativi di Valduga (578-579). Il silenzio è un campo semantico presente, che tuttavia non è da interpretarsi quale negazione angosciante della comunicazione (come in Valduga), ma come scelta per proteggere l’amata da rivelazioni perturbanti.
Questa attenzione prosegue anche nella seconda
sezione, Lista di Spagna, che è però
precedente del 1981. Attesta, quindi, in brevi lampi versali la felicità
sgomenta (perché inattesa) della prima conoscenza, avvinta alla contemplazione
estatica di particolari anatomici, caratteriali e vezzi della giovane amata
(590-591). Si ritrovano anche le già citate risposte alle domande implicite di
Patrizia. Si veda il tema della caccia,
incontrato in Medicamenta, ma qui
smentito in un tentativo di rassicurazione basato sulla ribattitura della
negazione.
No, non siamo cacciati
né cacciatori, amore mio – nessuno
di noi due. C’è qualcosa per il cuore. (598)
O ancora, il poeta risponde a domande sul suo
passato amoroso (602); si fanno allusioni all’indagine presente nelle Cento quartine circa le pratiche di
autoerotismo della donna (603), rivisitando con piacere le memorie condivise
(609), gli umori dell’amore (596) e le tracce di una veglia tanto simile al
falso sonno di Valduga (612).
Dunque, il protagonista è ben diverso dalla
visione esacerbata e sentimentalmente precaria delle opere di Valduga: coerentemente
con la poetica di una “seconda linea lombarda”, la preminenza affettiva si
esprime nell’elezione di dettagli quotidiani a materia di poesia (605), singoli
ricordi, di per sé insignificanti, sono rivalutati alla luce della condivisione
privata (608), e il gioco erotico non è perversione patologica, ma una modalità
espressiva per comunicare l’urgenza del desiderio (609).
Bastano queste poche suggestioni per attestare
quanto, pur nell'eterogeneità degli approcci, Valduga e Raboni sperimentino in
poesia la lacaniana “metonimizzazione del desiderio” e, da scrivania a
scrivania, testimonino la soggettività estrema nella comunicazione del
desiderio e nella sua scrittura in versi.
Gloria M. Ghioni
[1] Si legga, ad esempio, questo scritto che
autorizza esplicitamente lo studioso a un approfondimento: «È successo a dieci
anni di distanza dal mio incontro con Patrizia Valduga, che è sicuramente
all’origine di questo… Lo shock che è stato per me, oltre alla sua persona, la
sua poesia… ma ci ho messo dieci anni a elaborarlo e ne sono venuti i sonetti.
Adesso, pensandoci, sono importanti soprattutto perché credo di essere riuscito
finalmente… a parlare di me come non avevo mai fatto, attraverso qualche
travestimento» (G. Raboni a G. Fantato e L. Cannillo, in La biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani, Milano,
Joker, 2006).
[2] G. Raboni, Nel grave sogno, Milano, Mondadori, 1982.
[3] G. Raboni, Canzonette mortali, Milano, Crocetti, 1987. Si fa riferimento al
Meridiano, cit.
[4] Cfr. Ignacio Matte Blanco, Un esame più dettagliato della
sensazione-sentimento, in L’inconscio
come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, a cura di P. Bria, Torino,
Einaudi, 2000, 246 e sgg.
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