Questo vuole essere un tentativo di comprensione
letteraria della realtà. Usare cioè a fini gnoseologici alcune esperienze
estetiche e teoriche che, nate nella letteratura, possono aiutare a mettere a
fuoco la realtà che si è espressa nelle elezione del 24 e 25 febbraio. Eviterò,
quindi, di esprimere un giudizio su alcuni aspetti, perché sono convinto che
nella lotta per il consenso (la politica viene dopo), a differenza della
letteratura, valga non ciò che è bello, ma ciò che è efficace. Non mi allenerò quindi
in discorsi militanti da sinistra delusa, in panegirici movimentisti o
arzigogoli berlusconiani. Non farò sermoni ecclesiastici da intellettuale che
giudica dall’alto della sua cattedra, come scrisse un grande cardinale,
Gianfranco Ravasi, che apprezzo pur nel mio agnosticismo viscerale: quando un
dito si alza a giudicare, i tre restanti indicano chi giudica. Frase quanto mai
da meditare dopo la sorpresa che ha destato tra moltissimi intellettuali il
risultato del M5S: non si può avere giudizio che, senza un umile e attento
esercizio di comprensione, non cada nella cieca superbia.
Credo che il caso alle volte parli, e secondo me non è stato
un caso che le ultime elezioni si siano svolte una settimana dopo il carnevale,
quando ancora il suo sentimento era forte nella bocca insieme al gusto delle
frittelle. Mi spiego. Non credo sia solo una mia opinione che ormai la politica
italiana fosse arrivata ad una autoreferenzialità parossistica tanto dannosa
quanto irritante. Basti pensare alle articolesse e agli editoriali di commento
su dichiarazioni di qualche politico, oppure ai vibranti contrasti su argomenti
ideali che non si placavano per settimane per poi portare, se si arrivava a
qualcosa, a leggi inefficaci e parziali. Ogni argomento era derubricato a mezzo
di contrasto, ad espressione di identità partitiche. Come diceva Gaber era solo
“il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché con la scusa di un
contrasto che non c’è”. E intanto l’Italia stagnava, la struttura
dell’istruzione peggiorava e l’organizzazione dello Stato si deteriorava. Nel
2011, a tutto ciò, si andò ad aggiungere il terribile straripare della crisi.
Una momento simile, caotico e confuso, in cui tutte le vecchie certezze vanno svaporando è un panorama ideale molto simile a ciò che si ritrova nel teatro scespiriano. Lo status quo, accecato dal potere, non vede la realtà: solo il folle, il giullare, può disvelarla sia ai protagonisti che al pubblico. Il fool ha il ruolo di dicitore di verità indicibili, ma è anche il re del carnevale, del caotico procedere ragionativo che può fare a meno della logica, ma che proprio grazie a questa libertà può dire verità ben più profonde. Il giullare di corte è un personaggio fuori dal sistema: dentro la corte, ma fuori dalle sue logiche[1]. È la parodia vivente del re, per questo ha libertà di parola ma non di azione.
Guardando queste elezioni sembrava di trovarsi, da una
parte, di fronte ad un potere vecchio, non capace di esprimere partecipazione ai
drammi dei cittadini; dall’altra un fool
che usando l’ironia e l’eccesso esprimeva confusamente i bisogni e le enormi
lacune di un Paese invecchiato. Da una parte freddezza, dall’altra la rabbia di
chi ha perso molto, se non tutto. Il contrasto è stato per la prima volta non
di identità, ma di rappresentazione (soprattutto nel senso teatrale del
termine) dei drammi dell’Italia. Si è votato chi sapeva portare alla luce, nel
modo più espressivo, i problemi del cittadino. Portarli in scena quasi in
maniera catartica. Si è votato, credo, non per le promesse elettorali (tutte meno
affidabili di quelle di un marinaio ubriaco), ma per la capacità di
rappresentazione (sempre nella duplice accezione) della parte politica.
L’uso ossimorico di alcune espressioni forti, lo sberleffo
al potere e l’uso caricaturale e deturpante di alcuni epiteti fatto da Beppe
Grillo hanno molto di carnevalesco, nella accezione bachtiniana, ma mai come il
rovesciamento della gerarchia che si è venuto a creare con l’esito delle urne.
Ciò che alla fine è avvenuto il 25 febbraio è stato un atto di ribaltamento
carnevalesco, un abbassamento del potere, una scoronazione del re che facesse
avvicinare il potere alla realtà terrena in modo che potesse riprendere vigore.
Ciò che ha voluto fare il popolo italiano è stato un atto di detronizzazione del
potere tradizionale, in modo da farlo investire dal caos che rompe le forme e
fertilizza il terreno.
Alla fine il re del carnevale, e simbolo del caos, ha perso
il suo berretto a sonagli e ha preso la corona reale. Non sappiamo come finirà
la parabola del fool genovese, sarà
la storia a giudicare se il seme gettato era di grano o di gramigna. Ciò che ha
fatto, comunque, resterà un atto simbolico importante, un atto di pacifica
rottura in funzione della costruzione di qualcosa di rinnovato.
Gabriele Tanda
Gabriele Tanda
[1]
Vedi Roberta Mullini Corruttore di
parole. Il fool nel teatro di
Shakespeare, Bologna, Clueb, 1983.