Tra modernità e tradizione. [La mia scrivania] |
Chi non ha mai avuto un diario con uno di quei buffi lucchetti dorati o argentati, che bastava spingere appena per aprire? Eppure, quanto ci si arrabbiava se qualcuno in famiglia apriva quel diario! Allora si cercava un degno nascondiglio dei nostri segreti (che poi, diciamocelo, ricorrere al cassetto dei calzini non ha mai fermato nessuna mamma). Ma quel che importa è la premessa: la segretezza. Il "diario segreto" non andava violato: diventava un album con lo scontrino di quel ghiacciolo mangiato con il primo fidanzatino, la pagina tappezzata di foto del mare, il disegnino colorato con tanta cura. Soprattutto, era il luogo della confessione, dove scrivere tutto quello che neanche al migliore amico si poteva raccontare.
L'autocensura, in fondo, non ce la siamo mai posta, almeno non prima di aver trovato il lucchetto forzato o aver percepito un certo non-so-che nei discorsi di mamma o papà.
E il destinatario? Teoricamente, il destinatario è il proprio io, ma non sono così rari i diari "prestati" all'amica del cuore (un'abitudine quasi sempre femminile, perché i ragazzi spesso si vergognano di indugiare a pensare sulla carta [peccato, un po' di autoanalisi avrebbe risparmiato sedute d'analisi da adulti, ma tant'è...]. In ogni caso, quando non è d'autore, tradizionalmente il diario è autoreferenziale, o ammette pochissimi destinatari scelti, anzi sceltissimi, e i lettori indesiderati sono avvertiti come invadenti (2).
L'autocensura, in fondo, non ce la siamo mai posta, almeno non prima di aver trovato il lucchetto forzato o aver percepito un certo non-so-che nei discorsi di mamma o papà.
E il destinatario? Teoricamente, il destinatario è il proprio io, ma non sono così rari i diari "prestati" all'amica del cuore (un'abitudine quasi sempre femminile, perché i ragazzi spesso si vergognano di indugiare a pensare sulla carta [peccato, un po' di autoanalisi avrebbe risparmiato sedute d'analisi da adulti, ma tant'è...]. In ogni caso, quando non è d'autore, tradizionalmente il diario è autoreferenziale, o ammette pochissimi destinatari scelti, anzi sceltissimi, e i lettori indesiderati sono avvertiti come invadenti (2).
Fino a un decennio fa, il diario è stato una pratica privatissima (qualche volta un testo letterario, ma di questo non voglio parlare ora - 1), un rito da consumarsi nella più ferrea solitudine, spesso nello stesso posto, alla stessa ora e sullo stesso supporto. E con quale brivido si apriva una nuova agenda/quaderno/taccuino, quando avevamo finito l'altro! Era un momento da ricordare, la prima pagina andava scritta a dovere, perché poi sarebbe capitato di rileggere proprio quella - per ritrovarsi, per compiacersi, per mettersi in croce, per nostalgia... Insomma, per riviversi.
Poi, sono arrivati i diari online, ovvero i blog. Si potrebbero fare molte osservazioni sui cambiamenti, e anzi si trovano molti detrattori che si lamentano e rimpiangono il passato (si potrebbe anche riflettere sul fatto che si vendono meno agende e che tutti i lucchetti sono finiti sul Ponte Milvio, ma sorvoliamo). Vorrei invece soffermarmi sulla segretezza, perché il fenomeno dei blog, seguito e accompagnato dai più recenti social network, è davvero interessante. Specialmente, mi chiedo quanto la scrittura dell'io per eccellenza stia influenzando un genere letterario recente, sempre più in voga negli anni Duemila: l'autofiction.
La segretezza, negli utenti di blog, viene lentamente meno: le piattaforme lasciano la possibilità di scegliere se tenere il blog aperto a tutti i lettori, limitare ai lettori invitati o del tutto chiuso. Sarebbe interessante conoscere i numeri di quanti utenti scelgono di tenere privato il proprio spazio. Per istituzione, comunque, il blogger scrive e si fa leggere, proteggendosi molto spesso con la maschera del nickname. Dunque, non punto più a nascondere i contenti, che anzi vengono spesso liricizzati, ritoccati in nome del nostro pubblico, ma punto a nascondere la mia identità dietro a un nomignolo o, cosa non rara, a crearmene una alternativa. Infatti, il nickname non garantisce la tutela della privacy e quindi sfogo immediato alla propria sincerità, ma è spesso la spia di mistificazione. L'ho provato in prima persona, avendo sperimentato vari tipi di scritture su blog e - fatto di per sé singolare - dopo un blog in cui mi ero protetta con pseudonimo di un'eroina celtica, da me molto amata, avevo aperto un altro blog con nome e cognome (lo posso dire, tanto sono stati entrambi chiusi al pubblico, ora, ma non cancellati, per il famoso piacere di rileggersi e trovarsi cambiati). Tornando a noi, dicevo che è facile passare dal nickname a un'identità fittizia, un po' cambiata, che incarni i nostri sogni e le nostre paure e, per quanto più frequente in adolescenza, è un fenomeno che investe qualsiasi età.
Ma se iniziamo a scrivere non quanto è accaduto oggi, ma quello che i nostri lettori vorrebbero, oppure che il biondino/a di 5^C mi ha guardata/o (quando non sa neanche della mia esistenza), o che abbiamo vinto alla lotteria (anziché aver speso metà stipendio all'outlet), dove sta l'autenticità? Non stiamo più scrivendo per noi stessi, ma per evadere, per renderci più accattivanti agli occhi del pubblico dei lettori. In breve, ci stiamo creando un mondo alternativo: il mondo della narrazione. Scardiniamo il "patto autobiografico" di Lejeune (3), che nel diario prevederebbe un'identità tra autore-narratore-personaggio, ed entriamo nelle infinite possibilità della fiction. Il lucchetto è stato aperto, e non da una mamma curiosa, ma da noi stessi: abbiamo scelto di non raccontarci come siamo, deponiamo la penna davanti alla sfida del "conosci te stesso" (d'altra parte, sono stati messi in crisi anche gli oracoli...) e, molto meno pretenziosamente, raccontiamo noi stessi come ci vogliamo o come ci immaginiamo, attraverso lo specchio deformante della narrazione (viene da chiedersi se sia sempre migliorativo...).
Con il social network, la tendenza a mettere in mostra la propria vita è aumentata a dismisura: ci si racconta per esserci, se sono sempre più convinta. Certi "status" su Facebook o certi tweet hanno la stessa inutilità delle piccole notazioni diaristiche: gli impegni presi, un aneddoto, una citazione, una arrabbiatura... Ma qui, si sa, l'autocensura conta, eccome! Proprio in nome di un pubblico (tra cui potremmo trovare il dedicatario di una parola a dir poco vernacolare, o al contrario del nostro amore non-dichiarato o rifiutato), ci auto-regoliamo, oppure scriviamo e cancelliamo tutto a velocità della luce, sperando che l'adsl non ci abbandoni nel momento del click cruciale.
In conclusione, la tecnologia ha dato un incremento innegabile alla pratica del "nascondimento di sé", dietro lo pseudonimo più cretino del mondo o la creazione di un mondo che possiamo controllare, perché dipende solo da noi. Viene spontaneo chiedersi quanto, oggi, il confine tra scritture dell'io e narrazione sia ancora più rarefatto, labile, permeabile. In fondo, da sempre, deformando un ipse dixit, il diarista è un fingitore.
Gloria M. Ghioni
1) sulla distinzione tra testo e pratica rimando ai tanti studi di Philippe Lejeune sulla diaristica. Particolarmente utile, in questo senso, Le pacte autobiographique 2 (Paris, Seuil, 2005). Per chi non masticasse francese ma volesse approfondire, alcuni scritti sul tema sono raccolti in traduzione in On Diary (Honolulu, University Press of Hawaii, 2009).
2) se vi interessa approfondire il tema del destinatario nel diario, vi consiglio un libro vecchiotto ma ancora utilissimo: Jean Rousset, Le lecteur intime, Paris, 1986.
3) ancora importantissimo: Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1975 (tradotto in italiano per Einaudi come Il patto autobiografico).
3) ancora importantissimo: Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1975 (tradotto in italiano per Einaudi come Il patto autobiografico).
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