Giùllemani
di Carola Ludita Farci
Il Cenacolo di Ares, 2012
pp. 185
€ 13,00
Il Cenacolo di Ares, 2012
pp. 185
€ 13,00
L'esordio letterario di
Carola Ludita Farci è al tempo stesso il terremoto e il sismografo
che lo rileva. È il caos, interiore e sociale, e la fotografia che
lo immobilizza e lo rende definibile per un attimo appena. Restituire
verbalmente le inquietudini di una studentessa con un futuro incerto
e un presente vertiginoso e confusionario è possibile, volendo avere
un approccio mimetico verso il “disordine”, rendendo inquieta la
sintassi e insicura la grammatica. È possibile a patto di rispettare
un compromesso difficilissimo: l'atto della scrittura è per sua
stessa natura razionalizzazione e ordine; sovvertire completamente
questo dato di fatto significherebbe non comunicare e sabotare le
connessioni logiche con flussi di parole slegate tra loro o, magari,
di lettere soltanto. L'autrice supera l'ostacolo – lo attraversa,
non lo aggira – e si mantiene sapientemente in equilibrio. In buona
parte ci riesce grazie al ricorso all'italiano neostandard e
substandard che dà un aspetto crepitante e guizzante alle sue pagine
e risulta particolarmente efficace nel garantire l'alto tasso di
pluridirezionalità caratterizzante Giùllemani.
Non si danno alternative nette e facili da distinguere e
gerarchizzare, convivono gli opposti e si rafforza la vertigine.
Detta
così, il lettore rischia di immaginarsi un'opera di inusitata
pesantezza che niente concede alla piacevolezza di lettura. Nulla del
genere, anzi. Una massiccia vena di spontanea leggerezza, che non di
rado assume tinte comiche, è sempre presente.
Giùllemani
è la storia di una ragazza che vive a Pisa e sogna la Sardegna dove
è nata, studia Lettere ma ama i numeri, si illude di frequentare
l'UNIVERSITÁ
salvo poi poi scoprire che si tratta di una semplice UNIVersità
destinata a perdere tutte le lettere maiuscole: «Quando
torno a Pisa trovo una lettera dell' UNiversità che oramai di
lettere maiuscole non ne ha più molte...» (p. 175).
Potremmo
dire che il libro è tutto quanto sta tra la parola in maiuscolo e
quella in minuscolo. È il sogno, gridato (ecco, è un libro ad alto
tasso di decibel) e la disillusione che non conosce rassegnazione.
Marta, la protagonista, rimbalza continuamente – sfiorando
l'isteria, talvolta – tra un'istanza civica avvertita in profondità
e colta prima che venga distorta e inquinata da simboli di partito o effimeri slogan e la spensierata lievità di chi neppure ci pensa a
vedere i suoi venti anni anneriti e offuscati da un futuro che non
promette bene. La vita da studentessa fuori sede è segnata dai
rapporti inizialmente difficili con le coinquiline, indicate sempre
con spassosi nomignoli, e da un amore non corrisposto all'inizio e
poi rifiutato quando, corrisposto, minaccia di ingabbiare una vita
poco propensa ad accettare una stasi, sia pure particolarmente
piacevole.
Tra
la furia per i diritti degli studenti (e non solo) sempre più
calpestati e la cioccolata riversata sui capelli di chi spererebbe in
qualcosa di più di un'amicizia il libro sa anche innalzarsi, al di
là del godibilissimo intreccio, in rapidi scorci esistenziali. Sono
accensioni che hanno il sapore giocoso di chi si stupisce
dell'imprevidibilità della vita e a questa si aggrappa: il caso regna sovrano e permette alla
protagonista di trovare un equilibrio instabile che le fa apprezzare
la vita al di fuori delle asfittiche aule universitarie, dove per la
troppa ansia di dare un senso al mondo ci si dimentica di viverci,
dopotutto, nel mondo:
«[...] E io non lo so se ci credo al destino perché è un po' come credere in dio che a volte fa anche comodo crederci perché è rilassante credere che qualcuno ha in mano il tuo percorso, ma proprio per questo forse non può essere ed è antieconomico pensarlo e allora io penso solo che il mondo sia in mano all'entropia che è il caos e in questo caos nessuno fa ordine e le cose succedono per caso e non vogliono dire assolutamente nulla ma solo che sono successe e niente di più» (p. 68).
Di
fronte a una realtà che sbanda, si contraddice e non si fa comprendere,
la fragilità estrema della protagonista è una provvidenziale ancora
di salvezza. La facilità con cui passa dal pianto al riso, le parole
urlate – siano esse di felicità o di delusione – e i pugni
contro il muro della propria camera sono un “no”
all'accettazione, alla narcosi; sono l'epica o ridicola
cocciutaggine, comunque benedetta, di voler distinguere una a una le
singole note del brusio là fuori e di non lasciarsene ipnotizzare
senza muovere un dito. Marta è è una minuscola scheggia che ha
poche certezze dentro di sé e che si muove confusamente in un contesto
che di certezza non ne conosce alcuna, ma l'osmosi tra il dentro e il
fuori funziona, e la coscienza che ha di tutto ciò la rende capace
di nuotare, in qualche modo, senza la pretesa di raggiungere (e con
la libertà di non raggiungere) destinazioni prefissate.
Non
ho detto molto sulla trama e non ho intenzione di farlo. Basti sapere
che è sapientemente congegnata e cattura il lettore dalla prima
all'ultima pagina. Naturalmente, però, il cuore dell'opera non sta
nella concatenazione dei fatti ma nel modo in cui sono riferiti,
nelle parentesi e nelle pause. Sta nell'indignazione e nei sorrisi,
nel caos e nell'equilibrio di cui sopra.
È
un libro da leggere. Non è esente da alcuni difetti (su tutti una
scrittura che, quasi priva com'è di punteggiatura – siamo dalle
parti di Aldo Nove, per intenderci – a volte, raramente, perde il
suo ritmo e risulta di non facile lettura), ma sono difetti offuscati
dalla fresca intelligenza che scorre in abbondanza tra le sue righe.
«E allora ho la sensazione che tutto stia precipitando e mi sento come un giocoliere che ha tenuto troppe palle in aria insieme e adesso cadono tutte inevitabilmente e così è caduto Marco e poi è caduta Lorenza e poi è caduta Riccia che non è che me ne fregasse granché e però è caduta uguale e ora mi sa che sta cadendo anche l'UNIVersità e forse dovrei correre ai ripari» (p. 136).