Delle cose semplici, di quei particolari che dimentichiamo di appuntare da qualche parte per ricordarci che sono le cose davvero importanti, ecco, Fabio Bartolomei ne fa libri. Ogni volta che guarderete la copertina blu di We are family sentirete in testa la canzone delle Sister Sledge. Questo libro mette di buon umore; con leggerezza, sciorina spunti di riflessione sui rapporti umani, sulla società, sulla politica: a mio parere è questo connubio tra l'umorismo e la riflessione sulla società che rende i romanzi di Fabio Bartolomei così belli.
Dopo l'improbabile trio protagonista di Giulia 1300 e altri miracoli, il gruppo di arzilli vecchietti de La banda degli invisibili, We are family racconta di una famiglia romana, e lo fa dal punto di vista del figlio minore. Al è uno di quei bambini che non smetterebbe mai di giocare, né smetterebbe di guardare il mondo attraverso un filtro di colori e di fantasia; il suo carattere e il rapporto con la sua famiglia, nella quotidianità difficile degli anni Settanta e Ottanta vengono a tratti raccontati con grande dolcezza.
Quella senza melassa, però. Cito alcune riflessioni che Al annota sul suo diario speciale:
«Depositare la paghetta settimanale su un conto svizzero. [...] La cosa più importante del mondo è il posto fisso. [...] La democrazia parlamentare è bella ma non funziona. [...] Cercare lavoro fa male, dovrebbe essere lui a cercare te altrimenti ti viene la faccia sbagliata.»
Col
sorriso in punta di penna, hai fatto un ritratto impietoso
dell'Italia: anche se il romanzo è ambientato negli anni '70
e '80,
certe riflessioni restano brillantemente, drammaticamente attuali.
Dopo aver visto l'esito delle ultime elezioni, cos'hai pensato?
Appena è iniziato lo spoglio delle schede e sono arrivate le proiezioni il mio primo pensiero è stato un calcolo: mi sono fatto 13 anni di Democrazia Cristiana, 12 di pentapartito e 19 di Berlusconi, per favore basta. Di drammaticamente attuale nel romanzo c'è che l'Italia cambia troppo lentamente mentre la vita delle persone può cambiare di colpo, da un giorno all'altro. Ogni paese dovrebbe essere un volano per le aspirazioni e il talento dei cittadini, non una zavorra. Se così non è, meglio comportarsi come Al e fare finta che non esista.
Appena è iniziato lo spoglio delle schede e sono arrivate le proiezioni il mio primo pensiero è stato un calcolo: mi sono fatto 13 anni di Democrazia Cristiana, 12 di pentapartito e 19 di Berlusconi, per favore basta. Di drammaticamente attuale nel romanzo c'è che l'Italia cambia troppo lentamente mentre la vita delle persone può cambiare di colpo, da un giorno all'altro. Ogni paese dovrebbe essere un volano per le aspirazioni e il talento dei cittadini, non una zavorra. Se così non è, meglio comportarsi come Al e fare finta che non esista.
Parliamo
del protagonista, della voce narrante del romanzo. Uno dei tratti più
belli di Al consiste nel fatto che non soffre soltanto delle cose
spiacevoli che riguardano la sua famiglia, ma anche di ciò che
avviene al di fuori della sua quotidianità, ciò che succede nel
mondo: «E'
pieno di gente cattiva, Gelli, Moretti, Ali Agca...», pensa infatti
quando si sente venire meno. Com'è
nato il personaggio di Al? Verrebbe da pensare che hai dei bambini
sempre intorno o che ti ricordi bene cosa vuol dire esserlo.
Ad
Al è stata affidata una missione (o almeno così lui crede): salvare
il mondo. Ma cosa ne sa un bambino di sette anni del mondo? Il primo
pensiero quindi è quello di mettere il suo immenso talento di
bambino prodigio nello studio: studia i giornali, i tg, i notiziari
radio e lentamente (mentre lo scenario che gli si svela davanti,
fatto di violenza, corruzione e miseria, rischia di sopraffarlo)
partorisce un piano sospeso tra sogno e realtà, ingenuo, folle,
quindi anche bello.
Il
personaggio di Al è nato continuando la mia esplorazione sul mondo
visto dai deboli. Dopo i deboli culturali di Giulia
1300
e i deboli della terza età de La
banda degli invisibili,
un bambino era quasi inevitabile. Per l'ispirazione ringrazio mio
nipote e i figli dei miei amici.
Il
Lego, le biglie e il Crystal ball non sono cose da conservare, sono
loro che conservano te. Un forte giocatore di Lego resterà per tutta
la vita un raddrizzatore di quadri, un impilatore di libri, un
allineatore di posate sulla tavola. Le biglie, come tutti sanno,
entrano nel DNA e per tutta la vita sarà impossibile vederne una e
resistere alla tentazione di prenderla in mano, di osservarne le
screziature di colore e, al riparo da occhi indiscreti, di dare un
paio di schicchere. Il Crystal ball era chiaramente la versione
pediatrica dell'LSD, una volta provato non se ne esce più. Chiudo
la digressione e ti rispondo: non si può dimenticare ciò che si è
stati all'inizio. Quindi tornare bambino mi riesce molto facile.
(Spero che la differenza tra "tornare bambino" e "fare
il bambinone" sia chiara).
Chiarissima, direi. Se
ci fosse una cosa che potessi portare con te della tua infanzia, cosa
sceglieresti? Un oggetto, un modo di vedere le cose...o cos'altro?
La
cosa fondamentale da portarsi sempre dietro è la curiosità. Metà
delle follie che sentiamo è dovuta alla mancanza di curiosità,
sclerosi mentale di persone che credono di aver raggiunto la verità
e non sentono il bisogno di metterla in discussione per pura
curiosità verso gli altri, verso se stessi e verso il mondo. In
alternativa: il mio giradischi portatile. Arancione, grazie.
Riesci
a rendere l'atmosfera di quegli anni, l'aspetto storico risulta molto
curato anche e soprattutto attraverso certi riferimenti politici.
Racconti anche aspetti della tua infanzia, suppongo. Fino a che punto
quella di Al può identificarsi con la tua?
Parlo poco di me in generale
quindi mi riesce molto facile non essere autobiografico nei romanzi.
A parte qualche piccolo episodio di contorno ho vissuto un'infanzia
molto diversa da quella di Al, quello che ho cercato nei miei ricordi
sono soprattutto le atmosfere e il punto di vista. L'aria che si
respirava in quegli anni è indimenticabile: sembrava tutto così
moderno e invece era tutto già così vecchio, fantasticavamo sul
futuro ma ad ogni minimo cambiamento ci irrigidivamo, vivevamo
nell'attesa di un nuovo boom, "sono ciclici", ci dicevamo,
"flusso e riflusso, dieci anni di forte sviluppo e dieci di
stagnazione". Quanta ingenuità.
Per
chi ha letto Giulia
1300
sarà stato facile sentire una sorta di familiarità con We
are Family,
mi riferisco alla musica, straordinariamente presente, o al motivo
della trasformazione di un luogo qualsiasi in uno molto caro ai
protagonisti. Il tuo è stato un po' un ritorno alle origini?
Il
luogo è importante, è il personaggio in più. In Giulia
1300 l'agriturismo
era l'innesco, il fortino, un trasformatore di caratteri. In We
are family
la casa è la scatola di cartone dei bambini, pronta a diventare
castello, aeroplano o nave pirata. I luoghi sono i contenitori dei
sogni.
Più che di un ritorno alle
origini però parlerei di tema ricorrente. Vedrai, torneremo a
parlarne anche col prossimo romanzo.
Felice di sapere che è già in cantiere. Insegni scrittura
creativa? Dove?
Sto riprendendo ora dopo
molti anni di pausa. Prossimamente, spero, farò degli incontri
tematici in libreria (mi sembra il luogo più indicato). L'idea è
nata parlando con Marco Guerra, libraio militante nonché amico e
complice, inizierò da lui, poi se la cosa interesserà la porterò
un po' in giro.
Ho finito, anzi no. La
riflessione di Al sul posto fisso l'hai scritta prima o dopo la
battuta di Monti?
Dobbiamo
per forza finire l'intervista con delle parolacce?