Chi ha fatto il turno di notte
di Izet Sarajlić
a cura di Silvio Ferrari
con prefazione di Erri De Luca
Einaudi editore, Torino 2012
€ 12
pp. X - 132
Di Izet Sarajlić (1930-2002), voce
poetica tra le più sonore della ex Jugoslavia, si può dire che è stato un
autore cosmopolita nonostante la continua attenzione per la sua Sarajevo, città
dove ha vissuto fino alla morte e «dove forse non sono stato troppo felice, /
ma dove tuttavia anche la pioggia quando cade non è solo pioggia» (Sarajevo). Cosmopolitismo dovuto non
tanto ai frequenti viaggi (in Europa soprattutto) e neanche alla fitta trama di
amicizie sparse per il mondo, quanto alla cittadinanza universale che un poeta,
portavoce di istanze riconosciute dall’humanitas
tutta, deve possedere per costituzione, se così si può dire.
Il suo corpus poetico, ancora inedito in misura integrale in Italia,
affronta una grande varietà di «motivi ispiratori», come scrive Silvio Ferrari,
che spazia dagli affetti familiari più minuti alle liriche civili sulla guerra
balcanica. Il tutto non perdendo mai di vista un understatement, un tono pacato e familiare che contribuisce a
creare «un’antologia della quotidianità inesauribile» (ancora Ferrari).
L’uscita presso Einaudi di «una
ragionata scelta cronologico-estetica» (si veda la Nota al testo) di alcuni testi di Sarajlić, raccolti con il titolo Chi ha fatto il turno di notte?(curato
dal suddetto Ferrari e con una prefazione di Erri De Luca), ci offre l’occasione
di conoscere un grande testimone del Novecento, forse noto solo a una sparuta
platea nella nostra penisola (isole e arcipelaghi compresi). Da noi, infatti, prima
di questa pubblicazione nella “bianca” einaudiana, sono stati editi solo
quattro libri del poeta bosniaco più un carteggio con Erri De Luca, Lettere fraterne (Dante & Descartes,
Napoli, 2007). Proprio da quest’ultimo volume è stato preso il titolo della
presente raccolta: «Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del
cuore del mondo? Noi, i poeti».
Da sentinella solerte e integerrima
quale è, il poeta allora non può permettere che certi valori condivisi dalla comunità,
anzi dalla fratellanza degli uomini vadano estinguendosi lentamente sotto i
colpi impercettibili ma implacabili di un tempo minaccioso che preme alle
porte, perché «l’ultima cosa che ci attende non può essere la nostra morte, /
perché i desideri del nostro sangue da qualche parte devono continuare» (La dedica). Emerge, dalla lettura di
queste liriche, la responsabilità etica di cui il poeta, in virtù del proprio mandato
sociale e umano, si fa carico («Se la vostra vita non sarà migliore di tutte le
nostre / non accusate le stelle ma i padri», Tamara); ribadita costantemente, anzi variamente declinata: nei
moti universali della vita umana («Il tempo è quando ti parlo e quando mi parli
di permanenza», Ancora una notte)
come in quelli che invece scandiscono la quotidianità:
Tutti tossiamo quando Tamara tossisce.Quando Tamara ha 38 di febbre, la temperatura sale a tutti.Il giorno è alle porte, ma sembra impaurito anch’esso.E – dove ha lasciato le rondini?(La famiglia ha mal di gola, vv. 1-4)
Negli ultimi anni della sua vita Sarajlić
è stato spettatore di quelle guerre sanguinose che hanno lacerato il suo paese
all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, tuttavia questa esperienza non
ha incrinato la sua vocazione naturale ad essere poeta di quel sentimento
elementare ma difficilissimo che è l’amore – per la figlia Tamara, certo, per
la sua città, per gli amici (commoventi le poesie in mortem di Hikmet e di Alfonso Gatto), per il genere umano; ma in
maniera prevalente per la moglie, compagna di un’intera vita. Per lei si
ostinerà a scrivere versi che, in un contesto storico-sociale stravolto dalla rivoluzione
dei costumi e dei sentimenti, possono anche suonare anacronistici:
Anacronistici. In ogni senso, accezione, sfumatura dell’aggettivo.Tempi duri per l’amore, sempre più duri.Sono già state eseguite le sue mazurke e le polke.Guarda un po’, anche le licealirifuggono dall’amore.All’amore hanno dichiarato guerra.Totale. Fino allo sterminio.(Poesia d’amore degli anni sessanta del secolo, vv. 1-6)
Fosse almeno quel terribile,per l’umiliazione a nulla paragonabileanno 1993quando non avevamo nient’altroche l’un l’altro.Magari fosse ancora quel terribile,quel tante volte maledetto anno 1993!Avrei ancora cinque anni pienida poterti guardarea da tenerti per mano!(Fosse almeno l’anno 1993)