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#PagineCritiche: Il romanzo autobiografico secondo Grisi

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Il romanzo autobiografico
Un genere letterario tra opera e autore
di Cesare Grisi

Roma, Carocci Editore, 2011



Lo studio di Cesare Grisi si inserisce entro le indagini sull’autobiografia, genere ancora troppo spesso bistrattato per i suoi forti legami inter- ed extratestuali, nonché per la sensibile permeabilità con la realtà storica e sociale in cui è vissuto l’autore e per i conseguenti riverberi psicologici nella scrittura. Proprio nel rispetto di queste interferenze tra generi e invasioni più o meno dichiarate tra discipline diverse, Grisi innesta un lavoro calibrato, che punta a delineare, dopo un excursus doveroso, le principali fasi storiche del romanzo autobiografico, dimostrando che questo genere ibrido (che contamina di fictio l’aderenza realistica ai fatti) intensifica la sua presenza nel periodo postbellico. Come comprensibile, l’esperienza scioccante della guerra porta cambiamenti nel metodo d’introspezione; in particolare, secondo Grisi, ognuno avverte su di sé la colpa di quanto è successo e cadono tutti quei moventi aggregativi che avevano garantito, per anni, la dissoluzione delle ragioni individuali alla massa, per dirla con Le Bon e Sighele. L’uomo resta sostanzialmente solo; ne consegue un ripiegamento su se stessi, e dunque una riflessione autobiografica che, per Grisi, si colloca a metà strada tra la posizione agostiniana e quella rousseauiana.

Da queste e altre premesse, qui necessariamente solo accennate, Grisi costruisce un primo capitolo (L’autobiografia nella narrativa) di taglio teorico. In particolare, cerca di definire il romanzo autobiografico – poliedrico, sfaccettato, mutevole – come «genere intermedio», nato dall’incrocio di due generi indipendenti: il romanzo d’invenzione e il racconto autobiografico. Dopo efficaci riferimenti alle teorie di Iser (in particolare alla «realtà della finzione») e Cassirer, Grisi rileva come il romanzo autobiografico sposi la teoria dell’arte che ruota attorno al perno della vita, e non viceversa, come nella narrativa tradizionale. Per di più, cade l’esigenza di stabilire l’elemento prioritario tra autore, opera e lettore: vi è una «equipollenza», e il testo risulta «vettore tra autore e lettore» (p. 61). Solo a questo punto si può definire l’autobiografia come 
«il tentativo di scomporre l’unicità della vita nella collettiva omogeneità dei suoi eventi, al fine di analizzare, attraverso la scomposizione, i suoi aspetti più reconditi; ed è insieme un progetto di decostruzione – ricomposizione della propria immagine, al fine di condurla quanto più possibile vicino alla propria essenza» (p. 65). 
Si precisa che, di conseguenza, da parte dei critici è richiesto un approccio sincretico alle diverse discipline implicate, generando di conseguenza molteplici chiavi interpretative.
Poste le basi per lo studio dell’autobiografia, nel secondo capitolo Grisi propone una veloce ma significativa campionatura di testi autobiografici precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, sottolineando quanto fosse diffusa l’esigenza di verosimiglianza. Già nelle opere dell’abate Chiari e di Antonio Piazza si rintraccia da un lato una sorta di «patto pseudo-autobiografico e memorialistico» e dall’altro, per converso, un dichiarato scopo «edonistico-ludico». Bisognerà però aspettare Fede e bellezza del Tommaseo per arrivare a un «autobiografismo esplosivo», che è viaggio nella conoscenza di sé verso l’accettazione della debolezza umana. Gli si pone in netta antitesi il più incerto Romanzo autobiografico di Cesare Cantù, oggi rilevante solo come documento storico di un’epoca. È il Fogazzaro di Malombra ad attestare invece come sia possibile un’osmosi tra «il vero di fuori» e il «vero di dentro», dal momento che le sue opere attestano l’«assenza di contraddittorio nel tribunale della coscienza» (p. 84). Secondo Grisi, se in Fogazzaro il tentativo di fondere vita e letteratura fallisce per una preponderanza della prima, si verifica il caso opposto con D’Annunzio e il suo Piacere. Benché in Andrea Sperelli si realizzi una delle vittorie più significative dell’analisi introspettiva e del conflitto irrisolto tra Io e Ideale dell’Io, la ricerca di letterarietà filtra continuamente i fatti della vita. Quella sincerità della quale Andrea-D’Annunzio non ha avuto il coraggio sarà poi perseguita dal Pietro di Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi: tutta la realtà è asservita all’interiorità del personaggio, ovvero «l’autobiografia filtra l’universo esogeno» (p. 93), in una ricerca estrema della propria verità, che ritornerà nelle prove successive dello scrittore senese.


Dopo questa analisi letteraria, Grisi si sofferma per un intero capitolo sul passaggio della narrativa partigiana da «memorialistico-documentaria» a «soggettiva e d’invenzione». Le lettere partigiane testimoniano come, dopo l’ideale di aggregazione iniziale nella Resistenza, l’individuo sia costretto a considerare la propria esperienza con gli occhi freddi della solitudine. È quindi la volta dei diari, scritti in tempo reale (Giaime Pintor, Emanuele Artom) o a posteriori (Pietro Chiodi), talvolta basandosi sulla secchezza stilistica di vecchi appunti (Ada Gobetti) o, ancora, organizzando il ricordo per temi principali (Roberto Battaglia). Seguono le memorie, che con La guerra dei poveri di Nuto Revelli registrano l’adesione alla prima persona, fino al fondamentale Sentiero dei nidi di ragno di Calvino, marca del passaggio dalla memorialistica al romanzo, grazie all'introduzione di elementi inventivi. Seguiranno, in tal direzione, L’Agnese va a morire di Renata Viganò e Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern: di entrambi Grisi annota peculiarità che rendono le opere paradigmatiche dell’ambiguità della narrativa autobiografica del periodo.

Si giunge al capitolo centrale della trattazione, ovvero lo studio focalizzato sul romanzo autobiografico  postbellico attraverso casi esemplari. La cura filologica e le analisi ravvicinate non sono asservite alla mera argomentazione della tesi di fondo: i singoli paragrafi potrebbero essere saggi dotati di notevole autonomia: i tanti e ricchi approfondimenti, talvolta, rischiano di indebolire la trattazione, offuscando la tesi di fondo. Come premessa fondamentale alla rassegna testuale, Grisi, pur tenendo conto della teoria di Lejeune, presenta tre tipi di autobiografia, in base ai rapporti tra autore e realtà: cogente (che rimanda direttamente alla vita), straniante (l’autobiografia è l’intento primo ma è disseminata nel testo) e misto (procede per infrazioni). Al primo tipo Grisi fa risalire la produzione di Guglielmo Petroni, che con il suo precetto di verità congiunge la narrativa documentaria a quella autobiografica, con un progressivo e deliberato recupero dell’identità del singolo e della redistribuzione valoriale. È straniante, invece, l’opera di Cesare Pavese, che confida nella salvezza del mezzo artistico per riacquistare l’identità perduta, ma avverte in ogni opera il bisogno di assicurarsi dei risultati ottenuti regredendo e rimettendo tutto in discussione, in un conflitto interiore inesausto, fino alla prova estrema di La luna e i falò. Di tipologia mista sono i romanzi di Fenoglio, intricatissimi già a livello testuale, che superano tutta la narrativa autobiografica resistenziale, per via dell’intreccio inscindibile tra romanzo di azione (la guerra e le sue ragioni) e di riflessione (l’autore e la vita). Antiteticamente raffrontabile è Guido Piovene, che esibisce le proprie debolezze e i propri pudori, in una letteratura di spietata autoaccusa, investita dall’ambiguità innata dell’uomo e dal bisogno di verità. Solo nell’urgenza comunicativa della scrittura (sorvegliata stilisticamente, mai immediata, ma «piacere retrospettivo e prospettico»), da La Gazzetta nera fino a Le furie si cercano comprensione e plauso, a riprova di quanto sia precario e contraddittorio il possesso di sé.

Il volume si chiude con un ultimo capitolo dedicato a una più rapida rassegna di casi autobiografici negli anni ’60 e ’70, ovvero quando cambia la natura della responsabilità nei confronti della guerra appena conclusa e si registra un’apertura a nuovi problemi politici, sociali ed economici. L’autobiografia permane più nella forma che nella sostanza, con un’accentuazione del realismo nel mondo industriale, con autori-personaggi che si fanno diretti interpreti, senza escamotages inventivi. È questo il caso di Paolo Volponi, che interpreta il romanzo come realizzazione della dimensione bipartita di «realtà e aspirazione», con un sostrato autobiografico che consente lo sfogo di quelle «pulsioni che restano latenze nella vita». Altra esperienza significativa è quella dell’amico di Volponi, Ottiero Ottieri, secondo cui la letteratura è un ambito in cui si ha il dovere di entrare fisicamente: l’identità è connessa alla funzione sociale, come emerge fin da Donnarumma all’assalto. Con Volponi e Ottieri, Grisi riscontra la crisi delle categorie di Lejeune e di quelle di Genette; ne deduce che è impossibile imbrigliare l’autobiografia entro categorizzazioni rigide. Al contrario, alla fine del percorso, il genere si riconferma un «fattore scardinante», ma il conflitto tra realtà e fictio è solo apparente: basti confrontare le analisi testuali minuziose di Grisi.

Lo studio si conclude con un’abbondante bibliografia sulle opere letterarie prese in esame, che supera di gran lunga i testi teorici sul genere autobiografico, presenti in numero un po’ esiguo. D’altro canto, questa scelta potrebbe inserirsi coerentemente entro l’approccio comparatistico e stilistico dell'indagine. 

Gloria M. Ghioni