Le nostre assenze
di Sacha Naspini
Elliot, Roma 2012
Quando arrivai a un passo dal mio amico, neanche lo guardai. Ma vidi che mi tendeva una mano, strillando come una bestia macellata.
Addolora alquanto sentirsi di temere che una storia come questa potrebbe andare al di là di una semplice verosimiglianza, per sconfinare nella cronaca vera. Perché molta della gioventù italiana media – purtroppo qui ben rappresentata dall'anonimo protagonista-voce narrante – sembrerebbe confermare, nei propri atteggiamenti e comportamenti sociali, le distorsioni mentali e le anomalie psicosomatiche assortite di cui è disseminata la narrazione in prima persona di questa lunga avventura provinciale, dura, tagliente, sovente sgradevole e violenta ai limiti dell'insensibilità (insensibilità, a dirla tutta, presente più nelle osservazioni e nei (pre)pregiudizi espressi dal narratore-protagonista che nelle sue, pur altrettanto biasimevoli, azioni reali: insomma i fatti che via via compongono la triste, solitaria formazione raccontata dal ragazzo, che si sviluppa per oltre venti anni fra l'Italia e altri luoghi).
Per il momento, limitandoci alle tappe fondamentali de Le nostre assenze, noteremo che il romanzo – ben teso drammaturgicamente e tenuto costantemente sul filo del Passato Remoto – inizia con la ricostruzione di un lutto familiare subìto (le scomparse dei congiunti si subiscono, non si vivono) all'età di dieci anni, e prosegue con un'amicizia infantile fra coetanei, viziata dalle orribili discriminazioni di censo che questa nostra epoca ha resuscitato dal secolo diciannovesimo, addizionandole ad un consumismo insensato e stomachevole (il nostro quotidiano circondarci di sovrabbondanti esseri inanimati, aventi l'unica funzione di restituire al possessore la sua congenita deficienza spirituale è, in verità, una analogia con la reificazione e la strumentalizzazione che andiamo facendo degli esseri umani).
E via ancora, senza pausa: il giovane senza nome spietatamente va avanti, di anno in anno, mettendo i piedi nella melma di una vita che più tende all'alto del riconoscimento sociale, dello status symbol e dell'egocentrismo, più si scava una maleodorante e miserrima tomba emozionale, in cui solo legittimi e divinamente giusti incubi possono allignare, crescendo di numero e facendo gruppo, ad alitare sul collo del sepolto vivo. Ad ogni mossa di lui, un nuovo fantasma entra in quella buca. Tuttavia, egli va a piè disteso, picchiando sul ring, agendo imperterritamente a testa bassa, invece di fermarsi a riflettere e a sentire. O a sentire, soltanto. Potrebbe, chissà, prima o poi capire che rinunciando a un pezzettino di presunzione e chiusura mentale magari rintraccerebbe l'uscita della tomba... prima nella notte, poi in compagnia di un'alba, poi chissà, chissà, nell'aria pura. Ma no. Di riflettere con la sensibilità e non solamente coi sensori razionali egli non ne è capace, poiché è uno con i piedi d'argilla.
D'altronde così è fatto il suo mondo, la nostra Italia: un corteo recalcitrante, arrabbiato e frenetico di piedi d'argilla nonpensanti chiusi dentro scarpette da pugili. E picchia sul pallone di gomma, picchiaci, ragazzo italiano d'oggi, finché esso non divenga un muro. Di gomma. E tu non divenga un vecchio arrabbiato e inconcludente peggio di tuo padre: tutti insieme funestamente, ma ognuno per sé, convinto di essere nel giusto, l'unico giusto, una folla di unici giusti marcianti allo stesso passo nella mota italiana che loro stessi han creato e che ora accettano, privi di forza propositiva e amorosa come sono e sanno d'essere, e credono – erroneamente ma vaglielo a dire – che non potrebbero non essere.
Comunque, questa non è tutta farina del sacco della società e del ristagno storico presente, anzi diremmo che vada addebitata in pari misura alla natura astoricamente meschina dell'essere umano e alla inconsistenza delle famiglie odierne, in gran parte capaci solo di produrre dei cloni (peggiori) di sé chiamati impropriamente figli. Poi c'è una certa percentuale, che non saprei contabilizzare, di esclusiva pertinenza del protagonista, la cui formidabile, fredda furbizia e il cui egoismo, nonché la cui straordinaria capacità di reagire ed adattarsi agli aspetti peggiori della realtà sociale, fanno tutt'uno con un apparato logico-razionale malato quanto abnorme, sproporzionato rispetto all'età – o meglio: malato perché sproporzionato... e che, vedrà chi leggerà, tale può restare nel corso degli anni fino al raggiungimento dell'età adulta.
In breve: la parte malsana e innaturale, selvaggia, autoreferenziale di un giovane italiano, che, di fronte ai tanti interrogativi morali che la crescita presenta (i bambini, di natura, sono esseri fortemente morali), si trovi in assenza di risposte e di esempi sani, viene a prevalere sulla parte buona, aperta, umile, filantropica, affettuosa.
E la crescita, pertanto, diventa parziale e unidirezionale, nemmeno direi crescita vera e propria ma ottusa acquisizione, o meglio furto, di spazio spirituale ai danni della naturalità. Di conseguenza: ottuse sono le mete, ottuse le azioni per raggiungere tali mete ed entrambe controproducenti per se stessi e per gli altri. E disastrosi i risultati, che alla fine del racconto di Naspini ci dànno la cifra di una vita, un'intelligenza e soprattutto una potenzialità amorosa, indiscutibilmente sprecate e senza dubbio irrecuperabili. Infatti, l'adulto che conclude le ultime pagine ha l'età che suo padre aveva nelle prime, ma nessuno dei due, durante i tanti anni trascorsi, è cresciuto dentro, se non nella bruttezza e in un primitivo rammarico incapace di raggiungere il livello della disperazione, essendo questa cosa da individui maturi, maturandi o in grado di maturare.
A rifletterci un attimo, tutti quei bambini che, alle undici di notte in televisione – e truccati professionalmente da gente bravissima solo, appunto, a fare grossolani trucchi sulla pelle dei minorenni – scimmiottano canzoni d'amore da navigati dongiovanni o da donne da letto (attenzione: con i parenti a batter le mani e a tifare per loro in teatro), sono la migliore dimostrazione che Le nostre assenze riporta sì un caso limite, da rotocalco, da telegiornale, ed anche un po' da Pasolini narratore anni Cinquanta, ma non una forzatura della realtà. Niente iperrealismo, ohibò, in queste righe, piuttosto invece un monito agli adulti italiani di oggi che, se il nostro fosse un Paese di adulti lettori, maturi, consapevoli, e non di giovinastri irrequieti e brutali coi capelli brizzolati e la tivú attaccata al naso mascherati da adulti, a qualcosa potrebbe servire per migliorarci l'esistenza. E se qualcuno spiegasse ai ragazzini che l'amore per gli altri non si misura con il conto in banca dei genitori, e che la sacralità della vita non deve mai andare in secondo piano di fronte a una qualsiasi carriera o tesoro – e tanto meno uccidere potrà mai essere episodio superabile – questo romanzo servirebbe a tanto, immensamente tanto di piú che tutti i discorsi elettorali dei candidati politici 2013. Ed altro ancora, che spero scoprirete da soli in questa opera letteraria... be'... periodo ipotetico dell'irrealtà permettendo.
Sergio Sozi