di Antonio Steffenoni
Barion, 2013
149 pp.
L’incipit di questo romanzo psicologico è affidato ad un’amara riflessione
di Antonio Lopez, io narrante che ripercorre le tappe salienti della sua
quarantennale amicizia con Santiago Conte, regista ultraottantenne deceduto
poche ore prima, in seguito a un tragico volo dal balcone della stanza della
clinica milanese in cui era ricoverato. Neppure la sua fervente immaginazione
di scrittore convertitosi alle logiche rassicuranti di un guadagno sicuro, che
solo la sua brillante carriera di pubblicitario avrebbe potuto garantirgli nel
corso del tempo, sarebbe mai riuscita a generare un epilogo così tragicamente
assurdo. Il Natale si sta avvicinando a grandi passi in quella gelida sera di
dicembre imbiancata dalla neve che cade copiosa fuori dalla finestra di quella
saletta per il ricevimento dei parenti, dove ora Antonio siede al cospetto di
un ispettore di Polizia che lo interroga per far luce sulle reali dinamiche di
questo singolare suicidio. Cosa può aver scatenato repentinamente in Santiago
Conte l’insano proposito di porre fine alla sua movimentata esistenza? E com’è
possibile che tale proposito sia maturato pochi istanti prima che Antonio si
dirigesse precipitosamente verso l’uscita della clinica? Ma, soprattutto, com’è
possibile che un uomo dalla salute ormai irrimediabilmente compromessa e che a
stento si reggeva in piedi, abbia trovato l’energia necessaria per issarsi sul
parapetto del balcone (senza peraltro lasciare le sue impronte) e lasciarsi
cadere nel vuoto?
Antonio Lopez appare poco propenso a volersi confrontare con i malcelati
sospetti dell’ispettore, che sin dal primo istante lo ha additato come l’unico
potenziale assassino o, in “extrema ratio”, come colui che ha aiutato Santiago
Conte a morire.
Antonio distoglie fugacemente lo sguardo dal volto dell’ispettore,
notando come la finestra dell’angusta stanzetta si affacci proprio sulla scuola
elementare che aveva frequentato tantissimi anni prima. Il fatto di rivederla
per la prima volta dopo svariati decenni gli aveva procurato un senso di
estraneità, una sorta di sdoppiamento nei confronti di una tappa della sua vita
alla quale sentiva di non appartenere, da quando aveva deciso di rinunciare al
mestiere di scrittore.
Lo sguardo di Antonio si fissa nuovamente sull’ispettore, dai cui
occhi sembra trapelare un’incredulità frammista a un desiderio sincero di
comprendere e, forse, anche a un velo di simpatia verso quest’uomo di mezza età
che, se non fosse stato bloccato dal portiere, sarebbe tornato a casa per
ripensare alla sua lunghissima amicizia con Santiago Conte, salutata da un
inizio inaspettato e da un tragico epilogo ancor più spiazzante.
Nelle lunghe pause, che si innestano fra una domanda e l’altra dell’ispettore,
scorrono i fotogrammi di questo sodalizio quarantennale nato in modo del tutto
estemporaneo in una sera di marzo del 1970, sempre a Milano, durante la
cerimonia di assegnazione del premio di un concorso letterario riservato agli
scrittori inediti. Antonio, che all’epoca aveva solo vent’anni, si era
aggiudicato il premio manifestando una sorta di incredula ritrosia. A quella
serata era presente anche Santiago Conte, quarantacinquenne regista già
acclamato a livello internazionale, di passaggio a Milano per i sopralluoghi
del suo nuovo film, ben felice di conoscere quel giovane scrittore
italo-spagnolo esattamente come lui, con l’unica differenza che la madre di
Santiago era spagnola e quella di Antonio italiana: insomma, rappresentava il
suo specchio per antonomasia. Uno specchio su cui il maturo regista proiettava
l’immagine di quelli che lui stesso considerava, a torto o a ragione, come
errori o passi falsi che il suo giovanissimo alter-ego non avrebbe dovuto
commettere, a cominciare dalla scelta di abiurare ai richiami dell’arte e del
talento nella loro vera essenza, disperdendoli a favore di un più comodo
successo commerciale. Santiago lo aveva fatto, anche in ossequio alle politiche
del profitto imposte in modo più o meno tacito dai produttori, non fosse altro
che per barattare l’opportunità di portare sul grande schermo un’opera più
colta, ma non andava fiero di questa sua decisione. Nella scrittura di Antonio,
a cui attribuiva l’encomiabile dono di rimanere in bilico fra dolore e
distacco, fra disperazione e capacità di reazione, Santiago aveva intravisto
una sorta di riscatto personale da certe sue scelte, ma anche da certi suoi
limiti.
Ben presto, però, Antonio aveva iniziato a disattendere le aspettative
del suo mentore. Dopo la laurea in filosofia, si era sposato con Marta,
soprattutto per sottrarsi agli effluvi della depressione che affliggeva suo
padre, malato di nostalgia per il suo Paese. Un Paese che aveva abbandonato all’inizio
della guerra civile per amore della moglie italiana, salvo accorgersi, a
distanza di poco tempo, di essere incappato in un’unione fallimentare
trascinata per lunghi decenni, fino al giorno della sua morte.
Ma un matrimonio vissuto come via di fuga si regge inevitabilmente su
basi troppo traballanti per poter resistere all’usura del tempo e di sentimenti
alquanto tenui come quelli che univano Antonio a Marta, i quali finiscono giocoforza per
divorziare.
La voce dell’ispettore di polizia lo strappa brevemente all’inarrestabile
flusso dei ricordi, senza tuttavia impedirgli di registrare che il mese di
dicembre ha fatto da sfondo a numerose tappe salienti della vita di Santiago. È
dicembre, quando Antonio e Santiago si rivedono all’hotel Cavour di Milano, e
questi gli rivela i drammatici retroscena dell’uccisione di suo padre per mano
dei franchisti anch’essa avvenuta in un gelido tramonto di dicembre. All’epoca
Santiago era solo un bambino, e adesso voleva esorcizzare il trauma di essersi
visto decapitare il padre davanti agli occhi, chiedendo ad Antonio di
intervenire sulla sceneggiatura che stava scrivendo, con quel piglio distaccato
che lo avrebbe forse aiutato a superare la sua atavica disperazione.
Ormai Antonio Lopez è sempre più risucchiato dal vortice dei ricordi,
e a malapena registra l’incedere del tempo e degli eventi dentro e fuori dalla
stanzetta della clinica: il pubblico ministero che sta proseguendo l’interrogatorio
al posto dell’ispettore di polizia, l’alba livida ammantata da una neve che fra
poco le automobili e i passanti tingeranno di grigio, lo sfrigolio delle
stoviglie nella mensa, il caos dei giornalisti che si stanno accalcando all’ingresso
della clinica….alcuni di loro erano forse gli stessi che in passato lo avevano
fotografato in compagnia di donne bellissime. Con lui, però, aveva sempre
manifestato un certo pudore a parlare di sentimenti, quasi fossero un aspetto
che non lo riguardavano da vicino. Antonio Lopez avrebbe dovuto attendere che
arrivasse un altro dicembre, quello in cui Santiago, ormai settantottenne,
anche se in ottima forma, lo aveva invitato a trascorrere alcuni giorni nella
sua residenza nella campagna toscana. Accanto all’anziano regista c’erano Clara,
una giovane donna, e Carlotta, la sua bambina di cinque anni. Benché avesse pressoché negato di essere sentimentalmente legato a Clara, Santiago sembrava smentire con ogni
suo gesto l’assenza di un affetto speciale che manifestava in modo spontaneo
verso Clara e la piccola Carlotta.
Adesso però, in questa surreale girandola di corsi e ricorsi, era
Clara ad aver negato davanti all’ispettore di polizia di aver mai conosciuto
Antonio Lopez. Eppure era stata proprio Clara ad averlo riconosciuto tre anni
dopo il loro primo incontro nella residenza di Santiago: stava cercando casa a
Milano, dove contava di trasferirsi insieme alla piccola Carlotta. Antonio, che
ormai era un affermato pubblicitario, conviveva già da tempo con una editor.
Sul comodino della camera 213 della clinica milanese, in cui era stato
ricoverato Santiago, erano impilati l’ultimo romanzo di John Irving, “Il grande
Gatsby” e “A sud di nessun nord”, libri che grondavano morte ma anche una
straordinaria vitalità. Anche Santiago era sempre stato un uomo
straordinariamente vitale che, negli ultimi tempi, non aveva fatto mistero
della sua volontà di accomiatarsi da questo mondo, non appena si fosse
conclamato quello che lui definiva “il sintomo” che gli avrebbe impedito di
continuare a lottare contro la sua incapacità di amare una donna in grado di
smuovergli qualcosa nel più profondo dell’anima. Santiago aveva spiegato ad Antonio
che, non appena riusciva a stabilire un “contatto” con una donna di cui poteva
innamorarsi, in lui subentrava una strana paura che lo spingeva a prendere le
distanze da lei, troncando sul nascere ogni possibile coinvolgimento emozionale.
Santiago sa che non leggerà più libri, che non scriverà più
sceneggiature, che non potrà più tentare di sconfiggere la sua paura di amare. Forse ha capito che Antonio e Clara hanno avuto una relazione. In un estremo rigurgito di lucida determinazione, chiede al suo vecchio amico di aiutarlo ad alzarsi. Sarà un lieve cenno della
mano, senza proferire parola, a sancire il suo addio. Antonio si richiude la
porta alle spalle, salvo rientrare precipitosamente nella stanza, dopo aver
udito un terribile schianto. “Presto, mi aiuti” sono le prime parole che gli
rivolgerà l’anziano regista. Parole dal significato inequivocabile, soprattutto
quel “presto” che celava il suo timore che qualcuno gli impedisse di scrivere
la parola “fine” sul fotogramma che sanciva la sua definitiva uscita di scena.
Le ultime parole – “Ho bisogno di lei” – sono le stesse che aveva pronunciato
quando si conobbero quarant’anni prima. Antonio, che ha ben compreso tutto ciò,
lo solleva fra le braccia ed esce sul balcone.
Il PM, che in cuor suo spera in una confessione, gli chiede per l’ennesima
volta se ha qualcosa da dirgli. Antonio Lopez non ha nulla da dirgli, per il
semplice motivo che quanto è accaduto riguardava esclusivamente lui e Santiago Conte.
La vicenda narrata in questo affascinante romanzo vuole rendere
omaggio, per espressa volontà dell’autore, “a quei coraggiosi che sentono
quando viene il loro momento per andare. E vanno.”