di Matteo Marchesini
Voland, 2013
€ 13
pp. 130
Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l'audio dell'esperienza. (p. 9)
Vivere di parole è possibile, e il trentenne Marco Molinari lo sa: non solo perché è un brillante intellettuale e giornalista, ma anche perché è riuscito a «rielaborare un passato leggendario» (p. 9), celando ciò che serve ad affossare il pentimento, il rimorso, o il rimpianto. Sulla pagina bianca che, giornalmente, gli permette di verificare il proprio senso critico e lo sguardo satirico verso il mondo, Molinari esercita le proprie capacità cognitive, ma non se stesso. Infatti, per quanti articoli e saggi scriva, il romanzo che sta scrivendo è impaludato, perennemente a un punto morto: per puntiglio eccessivo; per orgoglio, forse; ma soprattutto perché significa andare oltre la parola, e scegliere la vita - per quanto immaginaria - di personaggi che agiscono.
Questa patina razionale, che vessa l'io con una perenne e accesa autocritica, è però destinata a soccombere, perché il passato, tanto lavorato dalla memoria, torna, quasi con brutalità. Con Lucia, riappaiono i ricordi di una storia d'amore non pienamente capita, rischiata con l'incoscienza della giovinezza, che non sapeva ancora «cosa fossero il dolore, la perdita, il puntiglio trasformato in idea fissa». Ma ora Lucia è tornata, e si impone alle giornate di Marco con la sua vitalità, il distacco ironico che la rende impenetrabile, e con tutti quei dettagli familiari che atterrano le difese razionali del protagonista.
Più che scandagliate, le reazioni di Marco vengono rubricate, con una precisione analitica, quasi scientifica, che cede all'emozione dei gesti ritrovati. E dei luoghi. Infatti, per raccontarsi Lucia ripercorre insieme a Marco i luoghi della loro storia, in una Bologna che, da luogo della narrazione, si fa luogo narrato, sfondo e personaggio insieme. Bologna, con le strade, gli angoli, i locali, le campagne, i ristoranti frequentati durante l'amore, non è solo geografia di un luogo, ma anche geografia di un tempo. Ogni passaggio è avvertito come «l'ennesima tappa di un percorso già deciso», che Marco non sapeva e non sa «decifrare» (p. 74). Pur non capendo le ragioni di Lucia, Marco cede alla sua volontà, accondiscende e accumula ipotesi su quel ritorno ai luoghi dell'amore.
Intanto, si fa sempre più chiara la malattia che muta Lucia, e i sintomi della chemioterapia stroncano crudamente le illusioni di un ritorno disinteressato. Ma quale sarà il piano di Lucia?
Molte recensioni in questi giorni sottolineano l'aspetto di suspense (e così nella quarta di copertina): pare più appropriato parlare invece di un romanzo sul passato e sull'ossessione del passato, che viene scoperto dal lettore e ri-scoperto dai personaggi attraverso continue e reciproche verifiche di dettagli, gesti, esperienze. Tuttavia, il passato non è un rewind: i singoli atti e le parole (anche quelle mancate) vengono ricostruiti dopo che vi è passato il filtro del tempo e dell'interpretazione. Quasi come se si volessero masochisticamente punire scoprendo nell'altro la dimenticanza, Lucia e Marco ricordano e chiedono all'altro di ricordare. I particolari minimi del presente sono ekphrasis per ritessere, insieme, emozioni che non rischiano di infeltrire.
Se vogliamo indulgere a un'indagine lessicale, "ricordare" (spia del principale campo semantico) è molto più usato di "ricordo": è questa, infatti, l'unica azione attiva concessa ai due protagonisti, per quanto desiderata e temuta al tempo stesso.
Il romanzo, candidato meritatamente al Premio Strega di quest'anno, porta il lettore in una narrativa insolita: letteratissima ma non intellettualistica, fine e introspettiva, di una finezza e un'introspezione a volte violente, perché quasi astratte e liriche. Poi arriva la malattia, con la sua concretezza indocile, e lo spauracchio della dimenticanza, più che morte, e ci si trova con Marco ad avere «le lenti tutte appannate, la bocca secca», in attesa.
Gloria M. Ghioni