Vecchie scritture dell'io, ritrovate come a volte capita, in un cassetto |
***
Ho scritto un diario: ho scelto il supporto, la penna, il momento della giornata, se scrivere la data e dove scriverla, se registrare un po' maniacalmente l'orario, e se sorseggiare un tè caldo mentre sfogo sulla pagina i momenti più duri della giornata o infiocchetto di cuori un unforgettable. Ho scritto un diario, e fin qui tutto bene; lo voglio pubblicare. Dite: si scandalizza qualcuno, oggi? Addirittura, se assomigliasse a un diario scritto da un accademico ironico o a bordo di una nave da crociera, probabilmente diventerebbe un bestseller. Ma anche se è un diario banalotto, di una ragazzotta di città piuttosto goffa innamorata del capo-redattore di un giornale a New York... Be', ok, quello è già stato scritto. Insomma, tant'è: il diario pubblicato, reale o fittizio, oggi non ci stupisce affatto. Ma cosa accadeva prima?
In fondo, il diario è rimasto a lungo una scrittura forzatamente privata, manoscritta, che veniva al massimo condivisa tra amici e colleghi scrittori. Nel 1963, un famoso studioso di diari (uno dei primi, per intenderci, che non ha inveito sull'eterogeneità dei diari e sulla loro indegnità), Alain Girard ha suggerito di suddividere in generazioni i diaristi-letterati, in base alla maggiore o minore consapevolezza dell'operazione letteraria che andavano a fare. Mi spiego meglio: la prima generazione è quella che ha scritto diari senza essere a conoscenza che anche il loro autore preferito o il vicino di casa stavano facendo la stessa cosa, a lume di candela. La seconda è rappresentata dai diaristi che, tra 1830 e 1860, scoprono questa nuova moda e si inseriscono senza grandi problemi entro il passatempo preferito. Il vero boom è però dal 1890, complici le innovazioni di stampa in piccolo formato (in Francia si diffondono dal 1838, ed. Cherpentier), i miglioramenti nelle infrastrutture e nelle esportazioni. A parte le ragioni economiche che possono spingere una simile operazione, un bello scritto di Gerald Rannau ci aiuta a pensare a cosa può spingere tra XIX e XX secolo tanti a scrivere diari esplicitamente per la pubblicazione. I gusti del pubblico, infatti, si sono modificati: cade la fiducia nell'eroe romantico, e la piccola-media borghesia in ascesa sente il bisogno di affermare la propria individualità. Anche l'opera letteraria, dunque, è amata tanto più garantisce autenticità e scavo psicologico.
Sono i tempi in cui gli editori iniziano chiedersi: come dare al pubblico tutto questo, senza perdere in letterarietà? In fondo, si sa che i diari sono per loro natura frammentari, eterogenei, ma anche contraddittori e a volte tachigrafici, annotano quanto è costato il pane o il numero di trine dell'abito della suocera, i brontolii dello stomaco o le performance sessuali (vere o - più spesso - sognate). L'editore, prendendo in mano il materiale grezzo di tanti diari da pubblicare dopo la morte dell'autore, ha più o meno carta bianca,e si trova a delineare veri e propri modelli del futuro "genere letterario" (le virgolette, solo perché alcuni critici ancora oggi bistrattano il diario e lo considerano 'pratica', 'rituale nevrotico', 'esercizio egotistico' o poco altro). L'editore conserva la natura frammentaria, censura quel che c'è da censurare (anche per motivi legali), edulcora brani troppo acri, esclude a suo piacimento questo o quel testo poco interessanti a suo dire. Insomma, fa un'operazione filologicamente raccapricciante, ma che funziona bene per proporre al lettore un corpus di frammenti da cui dedurre una personalità. Ovvero, il lettore scopre una personalità più o meno mediata da un intervento di un "editor ante-litteram".
Mentre alla fine del secolo si distribuivano sempre più i diari di scrittori, filosofi e pensatori, si diffonde anche la moda di leggere l'io di alcuni sconosciuti, che fanno del diario una via per il successo. Clamoroso è il caso di Amiel, che - completamente sconosciuto ai più e, visti i diari, a sé stesso - scrive oltre 16.000 pagine, composte dalla prima coscienza di alfabetizzato alla morte, con le registrazioni più minute della sua modesta e noiosa quotidianità.
Siamo, dicevo, sul crinale del secolo. I diari postumi sono ormai pubblicati senza grandi remore e tutti li leggono, anche gli scrittori e i diaristi-in-progress. Il passaggio successivo è proprio questo: avere diari tra fine XIX e XX secolo deliberatamente scritti in vista della pubblicazione. E, aggiungo, della pubblicazione in vita. Qualche nome? Gide, Green, Valéry, tanto per restare al di là del Monte Bianco. Anche in casa nostra ci sono diaristi che, perlomeno, pensano a una futura pubblicazione (che solo qualche volta avverrà effettivamente in vita): Delfini, Pavese, Longanesi, Alvaro, Zavattini, Vittorini, tanto per fare qualche nome che si spalma comodamente oltre il dopoguerra.
Ormai nella mente del diarista c'è il pensiero dei lettori, esattamente come avviene per qualunque altra opera letteraria; e, affianco, nolente o volente, si schierano - ora beffardi perché irraggiungibili, ora mesti e ripiegati sul proprio ombelico - gli esempi del passato. I diari pubblicati condizionano: che sia per imitazione o per distacco, ma sempre si trova un'influenza. Il diarista che cerca la pubblicazione torna a rileggere il proprio manoscritto, lo spurga di dettagli irrilevanti, offusca o esalta segni di debolezza, drammatizza ed evita di citare questo o quel nome che potrebbero metterlo in difficoltà (non dimentichiamo il boom delle scritture dell'io durante e dopo le guerre e il fascismo, con tentativi di autocensura preventiva o aggiramento della censura). Spesso, per i cultori degli autografi, posso dire che i diaristi scelgono di riscrivere il proprio diario in pulito, offrendo ghiotti casi filologici agli appassionati di collazione, ma più volte le copie in pulito portano i diaristi a distruggere i supporti originali.
Insomma, anche (o soprattutto?) quando l'autore si proclama assolutamente sincero, bisogna diffidare del diarista che pubblica deliberatamente: questo massimo grado di apertura, per dirla con Jean Rousset, è spesso menzognero. Io, diarista, cerco di riprendere tra le mie mani gli strumenti dell'autore (se non posso creare una narrazione, perlomeno voglio esaltare la coerenza o l'incoerenza di un mio percorso di vita), mantengo i vincoli del diario (data, frammentarietà) e soprattutto decido io l'editore con cui uscire, seguo le opinioni della critica e del pubblico. E mi preoccupo di come appaio, perché per strada, la mattina, posso ancora incontrare un ex-compagno di collegio che mi infila uno stiletto nella schiena, o un coniuge altrui che con me ha condiviso le gioie del peccato ora non mi rivolge la parola... Insomma, pubblicare chiede sempre cautele; pubblicare scritture dell'io spergiurando la loro autenticità (chiave di vendita anche oggigiorno) chiede guanti bianchi, macchiati tuttalpiù dall'inchiostro della riscrittura (o dal toner della stampante).
Gloria M. Ghioni
Riferimenti
- Alain Girard, Le journal intime, Paris, PUF, 1963;
- Gerald Rannau, Le journal intime: de la rédaction à la publication. Essai d'approche sociologique d'un genre littéraire, nel volume quasi sconosciuto ma potremmo dire fondamentale e anticipatore di atti di convegno del 1975: Le journal intime et ses formes littéraires, a cura di V. Del Litto, Genève, Droz, 1978;
- Jean Rousset, Le lecteur intime, Paris, 1986;
- Ugo Berti Arnoaldi, Pubblicare memorie, in "Quella parte del libro de la mia memoria". Verità e finzioni dell'io autobiografico, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 389-405;
Social Network