«Villa Erba è una casa che noi amiamo moltissimo. Ci riuniremo tutti là, fratelli e sorelle e sarà come al tempo in cui eravamo bambini e vivevamo all'ombra di nostra madre».
Scrive
infatti Gabriella Aguzzi:
E, giunti al culmine, affiora l’essenza della poetica di Luchino Visconti: nello splendore dell’ultimo ballo del “Gattopardo”, nella morte dei vicoli di Venezia dove il prof. Aschenbach insegue la bellezza irraggiungibile di Tadzio, nella caduta e nel disfacimento malato della famiglia Von Essenbeck, nel folle sogno di Ludwig, Visconti contempla la fine di un mondo, il suo, in cui, aristocratico raffinato e colto, era cresciuto e che sapeva morente. Pur proclamandosi intellettuale di sinistra, poteva far sue le parole del Principe di Salina “Noi fummo i gattopardi, i leoni, e dopo di noi verranno le jene e gli sciacalli”.Con precisione maniacale Visconti ricostruisce in ogni minuto dettaglio le meraviglie decadenti che colmarono la sua infanzia e le pagine degli autori da lui più amati, da Thomas Mann a D’Annunzio (due soli sogni non riuscì a realizzare: “La montagna incantata” di Mann e “La recherche” di Proust), dona alle visioni femminili il bellissimo volto di sua madre (Silvana Mangano in “Morte a Venezia”), trasmette nella cinematografia la stessa perfezione delle sue regie liriche e teatrali (delle quali non ci restano, purtroppo, che testimonianze fotografiche).
Dunque
questo sguardo attento al passato, alla ricostruzione sul set di una
realtà che aveva conosciuto da piccolo, caratterizza tutta l'opera di
Visconti.
Di
certo incuriosisce il modo in cui il romanzo di un aristocratico
sentito come obsoleto da un intellettuale di sinistra come Elio
Vittorini, conquistò il pubblico di quella stessa parte politica
insieme al film; lo stesso regista visse come uno dei protagonisti
dell'ambiente culturale comunista dell'epoca.
Resistono al tempo gli aneddoti in merito alla puntigliosità di
Visconti sul set e sull'amore viscerale che lo legava al romanzo di
Lampedusa, raccontati come sono stati da chi lo conosceva. Il film si
distingue per la fedeltà al libro, a cominciare dalla prima scena:
il Rosario della famiglia Salina, riunita al completo nel salone
arioso dalle decorazioni mitologiche che mal si adattavano ad un
contesto di preghiera religiosa. Tutti i racconti sull'attenzione ai
minimi particolari con cui il regista e il suo staff curarono i set
sono confermati anche da un bellissimo scritto di una degli autori
della sceneggiatura, Suso Cecchi D'amico, a Renzo Renzi:
Vorrei però farle una raccomandazione. Di non scartarmi le foto che riguardano la preparazione del film, i collaboratori, scenografia, costumi, arredamento. Lei non può immaginare quale fatica sia stata questo film. Senso è uno scherzo al confronto. Io credo sia davvero giusto dare un poco l’impressione di tutto questo lavoro. [...]L'ultima delle comparse del ballo è stata curata come una primadonna che dovesse spogliarsi in scena. Ogni singolo oggetto posato con altri cento in una vetrina o su un tavolo è stato causa di ricerche, prove, discussioni. Si è girato "dal vero" costruendo il vero.
Si è scritto spesso dei sopralluoghi siciliani in compagnia di
Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo dello scrittore, alla
ricerca di set ideali; si è scritto dei turni estenuanti per vestire
le comparse della scena del ballo, illuminata in buona parte da
candele; la ristrutturazione di Villa Boscogrande, (la villa Salina
palermitana), in un tempo record di ventiquattro giorni, i costumi
d'epoca: tutto valse il Nastro d'Argento alla migliore scenografia,
la Palma d'Oro a Cannes.
Gli attori scelti rimarranno sempre nell'immaginario di chi leggerà
il romanzo: non si potrebbero pensare diversamente l'imponenza, la
bellezza e l'aria di felino dalle zampacce gentili di Burt Lancaster
nel ruolo di Fabrizio; il fascino ammaliante di Alain Delon nei panni
di Tancredi; la bellezza mediterranea e quel misto di volgarità e di
sensualità di Claudia Cardinale nell'interpretazione di Angelica.
Anche i dialoghi sono fedeli al romanzo, sebbene il finale non
coincida: mentre il libro racconta della morte del protagonista e
delle vicende delle sorelle Salina, ormai vecchie e sole, il film si
ferma all'alba del ballo a Palazzo Ponteleone, quando un malinconico
Fabrizio torna a casa a piedi, dopo aver capito che il suo ceto
sociale è morto. Sceglie di andare da solo, lasciando che il resto
della famiglia vada in carrozza, senza di lui, sottile presagio della
sua morte.
E quella malinconia, quella
consapevolezza, è stata resa perfettamente nella scena in cui,
durante il ballo, Fabrizio si ritira per un po' in biblioteca ad
osservare La morte del giusto
di Greuze, a figurarsela come la propria. Tancredi lo sorprende in
questi pensieri neri, quando entra nella biblioteca con Angelica.
Seguono immagini in cui un gioco fitto di sguardi e frasi tradisce la
sensualità di Angelica, che Fabrizio subisce pienamente, come in
quel capitolo del romanzo mai pubblicato (in cui il Principe si
innamora della giovane) e la gelosia di Tancredi, mista ad una sorta
di soggezione nei confronti dello zio.
Le musiche di Nino Rota fecero il
resto, una cornice musicale perfetta, per descrivere la decadenza e
la dignità di una famiglia nobile, l'amore tenero e insieme
passionale di Angelica e Tancredi, la malinconia del principe.
E rimane il desiderio di rivedere di
nuovo il film, con un occhio particolare per gli oggetti, gli
ambienti, i luoghi che furono cari, in altri contesti, a Tomasi di
Lampedusa.
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