di Elena Tomaini
Bébert edizioni, Bologna 2013
pp. 127
€ 12,00.
L’esordio letterario della
giovane Elena Tomaini (nata nel 1984, sempreché vada presa per buona la
laconica e sfilacciata nota biografica della quarta di copertina) andrebbe
rubricato sotto la dicitura “racconti”.Tenuto conto, però, della particolare
natura della scrittura e, per la maggior parte di essi, dell’esile o
inesistente traccia narrativa, sarebbe, a mio parere, più opportuno parlare di
brevi prose letterarie. Si tratta di nove “pezzi” accomunati da
un’originalissima percezione e registrazione del mondo esterno, che lo stile, i
temi e le ambientazioni comunicano in una forma quasi immediata, quasi saltando
a piè pari l’elaborazione intellettuale o la ricerca di un’espressione
linguistica meditata (di qui anche l’esilità o l’assenza di una dorsale
narrativa che l’avrebbe costretta ad una maggiore artificiosità).
In questa immediatezza, pressoché assoluta, in questa freschezza dell’espressione linguistica, in questa “indecenza” dei contenuti (nulla di pruriginoso, per carità), si riconosce subito il merito dell’età. E se vorranno ridere di me scoprendo le carte e documentando che in realtà Elena Tomaini è un’attempata signora che nelle giornate di pioggia, non potendo dedicarsi al suo curatissimo giardino, si chiude nel suo studio a scrivere psicodrammi crudeli, non mi rimarrebbe che rispondere, in piena convinzione, che in letteratura si può essere vecchi a vent’anni e giovani a ottanta.
In questa immediatezza, pressoché assoluta, in questa freschezza dell’espressione linguistica, in questa “indecenza” dei contenuti (nulla di pruriginoso, per carità), si riconosce subito il merito dell’età. E se vorranno ridere di me scoprendo le carte e documentando che in realtà Elena Tomaini è un’attempata signora che nelle giornate di pioggia, non potendo dedicarsi al suo curatissimo giardino, si chiude nel suo studio a scrivere psicodrammi crudeli, non mi rimarrebbe che rispondere, in piena convinzione, che in letteratura si può essere vecchi a vent’anni e giovani a ottanta.
I
personaggi di Maschere respiratorie,
narranti o narrati in terza persona, e talvolta l’uno e l’altro al contempo in
virtù dell’autoduplicazione, descrivono stati mentali allucinati, scissi (il
titolo del primo brano è Scissioni),
estremi, compulsivi. Il disordine mentale, endogeno o provocato dall’esterno
(effetto performativo di spettacoli a metà strada tra teatro e installazione
artistica; o aggravato – ma anche consolato – da farmaci o droghe) non può
esprimersi attraverso le componenti analitiche del linguaggio, deve, bensì, ricorrere
a quelle componenti sintetiche che, se non escludono, certo abbassano il
controllo razionale imposto dal logos.
Metafore, sinestesie, scomposizioni cubiste, percezioni sensoriali parossistiche, ribaltamenti inaspettati, dettagli ingigantiti: quelle componenti, cioè, che sono spesso alla base delle sensazioni e delle espressioni artistiche. Il teatro di svolgimento di questi stati mentali è un a parte (la terminologia teatrale risponde appieno alle suggestioni dei testi) rispetto al mondo reale, comune, ordinato e disciplinato. Mondo evocato raramente e sempre in contrappunto negativo rispetto a quello del disordine, del disturbo mentale, della percezione parossistica. Come se il mondo entro cui vivono i personaggi di Elena Tomaini fosse ricavato appena al di fuori della centrifuga del mondo reale che riporta tutto all’ordine, al curabile, al comunicabile analiticamente. Un mondo estremo, destinato a non sopravvivere al suo stesso disordine, ma un mondo dal quale si può gettare uno sguardo straniato e straniante sull’altro, quello con cui ci troviamo quotidianamente a fare i conti.
Metafore, sinestesie, scomposizioni cubiste, percezioni sensoriali parossistiche, ribaltamenti inaspettati, dettagli ingigantiti: quelle componenti, cioè, che sono spesso alla base delle sensazioni e delle espressioni artistiche. Il teatro di svolgimento di questi stati mentali è un a parte (la terminologia teatrale risponde appieno alle suggestioni dei testi) rispetto al mondo reale, comune, ordinato e disciplinato. Mondo evocato raramente e sempre in contrappunto negativo rispetto a quello del disordine, del disturbo mentale, della percezione parossistica. Come se il mondo entro cui vivono i personaggi di Elena Tomaini fosse ricavato appena al di fuori della centrifuga del mondo reale che riporta tutto all’ordine, al curabile, al comunicabile analiticamente. Un mondo estremo, destinato a non sopravvivere al suo stesso disordine, ma un mondo dal quale si può gettare uno sguardo straniato e straniante sull’altro, quello con cui ci troviamo quotidianamente a fare i conti.
La
scissione mentale, la fantasmagoria, lo spettacolo teatrale, l’installazione
artistica, che sono i protagonisti e gli spazi entro cui si svolgono le prose letterarie
di Elena Tomaini, acquistano una tale forza nei suoi personaggi da sostituirsi
alla realtà (la realtà normalmente identificabile dal senso comune o
filosoficamente determinabile secondo il principio della falsabilità). Ma la realtà del senso comune o del principio
filosofico non ha necessariamente un contenuto di verità maggiore di una realtà
immaginata o fantasmagorica o interpretata. E la verità di questa prima prova
letteraria della giovane scrittrice consiste nella trasmissione per via
sintetica di un modo di vedere il mondo (percepire e registrare) del tutto
personale, che ha la sua brava rispondenza sul piano dell’espressione. Non
voglio dire che Elena Tomaini abbia inventato un linguaggio o esplorato temi
inediti dando voce al disturbo psichico o all’emarginazione sociale e culturale
(basterebbe citare la beat generation o
Antonin Artaud per trovarle predecessori di grande prestigio letterario),
voglio dire che si è inserita in una tradizione letteraria importante senza
esserne una semplice e pedissequa imitatrice. E raramente mi è capitato di
sentirmi dentro un disturbo mentale o
socio-culturale come in queste prose.