Opinioni di un clown
di Heinrich Böll
Mondadori, 2001
Nel 1963 Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura nel 1972, pubblica “Opinioni di un clown”. Dietro una trama apparentemente scarna, si nasconde una delle opere sicuramente più significative della letteratura contemporanea. Fin dalle prime pagine, non è difficile intuire il motivo per cui il romanzo abbia destato scalpore, non solo in ambito letterario.
Muovere una critica così aspra a tutto il sistema politico-sociale non è certamente un’impresa da poco. Si rischia di urtare i poteri forti e di smuovere pericolosamente le coscienze, di scadere nel qualunquismo o di essere tacciati di demagogia. Ed è probabilmente questo il motivo per cui Böll scelse di formulare la sua spietata arringa servendosi della figura dell’artista, un personaggio “neutrale” e, almeno in teoria, libero da qualunque forma di condizionamento. Ma Hans Schnier, questo è il nome del protagonista, non è un artista qualsiasi. Hans è un clown, l’uomo che, dietro la sua candida maschera di biacca, calca il palcoscenico alla ricerca dei sorrisi del suo pubblico. Un artista che si presenta così:
“Sono un clown. Definizione ufficiale: attore comico, non pago tasse per nessuna Chiesa, ho ventisette anni e uno dei miei numeri si chiama “arrivo e partenza”: una (quasi troppo) lunga pantomima in cui lo spettatore fino alla fine confonde arrivo e partenza”.
Sembra quasi di vederlo Hans e la sua vita da clown girovago, da una città all’altra, dal palcoscenico di un oratorio di periferia al teatro di una grande città, sempre in compagnia di una valigia e dell’amata Maria. Fino a quel drammatico addio scritto su un biglietto, a quelle poche, durissime parole che infrangono un sogno. La fine dell’amore coincide con una serie di insuccessi professionali. Durante uno spettacolo, Hans si infortuna gravemente ad un ginocchio e ormai solo, con gli ultimi spiccioli in tasca, decide di tornare a Bonn, la sua città natale. Nel suo appartamento color ruggine, metafora del progressivo disfacimento umano e professionale, l’artista/uomo Hans Schnier compie un difficile viaggio interiore, fatto di autocommiserazione e odio, in una realtà frammentata e talmente deformata dal peso malinconico ricordi, da confondersi con il sogno.
Nell’arco delle poche ore in cui si concentra tutto il romanzo, si compie una paradossale metamorfosi: quel clown spesso “arruolato” per far ridere e divertire, si tramuta in una potente “macchina” accusatoria, cinicamente lucida e spietata. Una macchina che non risparmia nessuno - la famiglia, la stampa, la politica e addirittura la chiesa – scagliata contro quei poteri dominanti che si contendono i resti di una Germania sconvolta. Sotto i colpi della spietata arringa del clown, la società tedesca si mostra in tutta la sua miseria; sfaldata dal nazismo e dall’odio antisemita prima della guerra, divisa da un muro voluto dai vincitori, dopo. In questo clima incerto e disorientato, il clown di Boll, dietro la sua maschera fatta di malinconia e rassegnazione, lancia un monito pesante alla società moderna, colpevole di abbandonarsi all’egoismo e all’indifferenza.
La trama è costruita con un sapiente intreccio di flashback che permettono al lettore di ricostruire, seppur in modo “disordinato”, le tappe più significative della vita di Hans, dall’infanzia fino all’abbandono di Maria.
Figlio di ricchi commercianti di carbone della Renania - nell'opulenta Germania dell’Ovest– Hans decide di lasciare la sua famiglia di cui non accetta l’ipocrisia e il perbenismo borghese. Gli stessi che hanno spezzato la giovane vita di sua sorella Henriette, arruolatasi nella Flak per volontà dei suoi genitori. Henriette non era altro che l’agnello da sacrificare sull’altare degli ideali filo-nazisti che una volta finita la guerra e, con essa il Reich, si dissolvono in favore della nascente ideologia capitalista. Hans non risparmia la sua astiosa critica nei confronti della madre – divenuta una paladina della conciliazione tra i popoli dopo la fine del conflitto - e del padre, uomo tanto influente nell’alta società tedesca quanto rigido e austero nei confronti dei suoi figli. L’unico familiare con cui Hans sembra aver conservato una parvenza di rapporto, è suo fratello Leo, seminarista convertitosi al cattolicesimo e in contrasto con i suoi genitori di confessione protestante. Scegliendo di dedicare la sua vita all’arte della pantomima, Hans cerca di sottrarsi al giogo delle convenzioni borghesi a cui la famiglia e la società cercano di condannarlo. Il suo ostinato rifiuto a piegarsi ad ogni conformismo, a modellare la sua coscienza sulla base una morale “preconfezionata”- di stampo politico o religioso- determinerà la sua condizione di reietto, di antieroe impotente e solitario, scagliato ai margini di una società che rinuncia ad essere autentica e preferisce vivere di compromessi. Ritagliandosi uno spazio di pensiero indipendente, il clown riesce a smascherare le mille contraddizioni, i disagi e i vizi di una nazione, che nel tentativo ricostruirsi materialmente e moralmente, finisce per perdere di vista l’importanza della comunità sprofondando inesorabilmente nell’individualismo più disperato.
A questa società duramente osteggiata da Hans, appartiene anche Maria, la cui figura domina l’intero romanzo. Maria è tanto più presente nei pensieri di Hans, quanto più si delinea la sua definitiva uscita di scena. Il ricordo della donna amata vive nell’armadio in cui non sono più appesi i suoi vestiti, nei cassetti che non contengono più le sue scarpe, tra gli scaffali del bagno su cui non sono più sparsi i suoi trucchi e le sue creme. Maria che, pur essendo una fervente cattolica, aveva condiviso per cinque anni la sua vita di artista bohémien, è fuggita per sempre, scegliendo di condurre un’esistenza stabile e borghese al fianco di un forte esponente del cattolicesimo tedesco. Il dolore e il risentimento di Hans sono tali da fargli immaginare la “sua” Maria infelice, imprigionata in una vita fatta di finzione e convenzioni, vittima di una scelta dettata dalla sua debolezza, dall’incapacità di sopportare i rimorsi per una relazione da sempre osteggiata dai circoli religiosi locali.
Spregiudicato e provocatorio fino a toccare l’irriverenza, “Opinioni di un clown” è un romanzo impegnato nel senso più alto del termine; una critica trasversale capace di mettere a nudo il colossale sistema di convenzioni morali e sociali della Germania post-bellica. Il clown di Boll è un artista che non vuole far ridere o recitare, ma mostrarsi in tutta la sua essenza di uomo autentico, l’unico veramente libero in una società materialista e corrotta. E lo fa attraverso le sue parole o, meglio, le sue opinioni sarcastiche e intrise di amara ironia, una condanna senza appello ad una umanità opportunista, votata ai falsi miti del potere e del denaro.
Il clown diventa protagonista inconsapevole di una gigantesca pantomima che non è altro che la sua stessa vita immersa in una realtà che non gli appartiene, stretta nella morsa di una società grottesca che è l’unica ad indossare una maschera, quella dell’ipocrisia. In mezzo a questa società decadente e corrotta la figura dell'artista che sceglie di non “prostituire” il suo pensiero per seguire la convenienza e di non mettere il suo genio al servizio del denaro, si erge solida e coerente.
“Ci sono delle strane, misconosciute forme di prostituzione, al cui confronto la prostituzione vera e propria è un'onesta professione...”
Il romanzo di Böll si caratterizza per la sua prosa volutamente lapidaria e asciutta, la più adatta a scolpire nella mente del lettore la sua critica dissacrante. Ma “Opinioni di un clown” è soprattutto un classico che merita di essere letto e apprezzato per la sua indiscussa modernità.
Le parole di Hans sono il grido disperato dell’uomo moderno, solo in mezzo ad altri uomini che, persi nella loro frenetica quotidianità, non trovano nemmeno il tempo di impietosirsi e di lanciare una moneta nel cappello di un mendicante che canta inni religiosi alla stazione di Bonn.
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