Yellow Birds
di Kevin Powers
Einaudi, 2013 (2012)
pp. 192
L’Occidente se ne sta ancora lì,
impantanato tra la Ur
dei caldei e remote tracce bibliche. E noi crediamo di condividere, da casa,
chissà quale dramma ogni volta che una bara torna avvolta in una bandiera. Ma la vita del soldato nei martoriati
villaggi e città irachene è inimmaginabile. O meglio, lo era fino a questo
libro, di un esordiente americano, il primo grande romanzo su quanto sta
accadendo lungo il Tigri e l’Eufrate, a Baghdad, sullo Shatt al-Arab. Lirico e veritiero, energia impietosa di colore
rosso sangue, che ti folgora come l’entità cieca che è la guerra, capace di
sfregare «a terra le sue mille costole in preghiera» e prendere paziente quel
che può.
Il soldato Bartle, l’io narrante,
è prigioniero tre volte, e ciascuna di queste prigioni s’interseca con l’altra,
si compone, scompone e olia un ingranaggio di morte. La prima prigione è, ovviamente, la divisa che indossa, la
situazione che affronta, ma soprattutto la consapevolezza di non avere sul
campo di battaglia e nelle missioni a cui è destinato il minimo controllo della
situazione. La galera del fatalismo si scontra con l’istinto
all’autoconservazione.
La seconda prigione è quella dei propri pensieri una volta tornato,
sono i ricordi atroci che determinano il presente, fatto di giornate trascorse
a poltrire, tra una sigaretta e una frase destinata a tranquillizzare la madre,
una fogna contaminata e contaminante che scombina la messa a fuoco sulla
realtà.
Ma c’è una terza prigione ed è la più potente. La vita può svoltare
in modo inatteso, repentino se dici esattamente quella parola a una precisa persona:
la parola è «Promesso», la persona è la madre del commilitone che ha visto in
te l’unico in grado di riportare a casa il figlio. Supplicandoti di farlo. Il
problema è che hai ceduto, promesso, appunto. Scoprirai sulla tua pelle che un
conto è sbilanciarsi quando ancora si è alla scuola di addestramento negli
Stati Uniti, un conto è mantenere ad Al Tafar, governatorato di Ninawa. Quando
la guerra resta vorace anche se digiuna ed è in agguato pronta a ucciderti in
primavera, poi in estate. Quindi ogni giorno. Vigile, chirurgica nel setacciare
le vittime con i suoi «occhi bianchi spalancati nel buio».
Bartle non si libera di quel
colloquio, breve ma totale, con la madre di Murphy, si chiama così il commilitone, e il rapporto umano che s’instaura
fra i due giovani, in un flusso di flashback ed epoche incastrate, è di una
complessità estrema, come le situazioni vissute, e schiacciato a profondità
umane difficili da sondare. Questa sorta di obbligo morale autoimposto si
attorciglia nell’animo di Bartle come un pitone su una preda, ma fino a che
punto – ecco la Domanda
– Bartle deve farsi condizionare
da tale impegno, sacrificarsi per Murphy?
Onestamente pure lui ha diritto a ritornare a casa, ha bisogno di sopravvivere.
Non oso dire altro, per
delicatezza verso chi vorrà leggere il libro ed è giusto che scopra da sé questo cuore
di tenebra che lascia sgomenti. Qualcuno potrebbe osservare che c’è il
solito sergente dell’esercito degli Stati Uniti già visto in Kubrick e dunque un cliché già sfruttato. Ma
anche fosse quello stesso sergente di Full Metal Jacket, e non lo è, vorrebbe dire che Powers
ha caratterizzato un altro personaggio in maniera mirabile. Non cerchiamo il
pelo nell’uovo di fronte a un capolavoro.