Proust e il calamaro
di Maryanne Wolf
trad. it. di Stefano Galli
Vita e
pensiero editore, Milano 2009
(ed. orig. 2007)
pp. 293
€ 20,00.
Mi
sembra onesto e opportuno dichiarare preliminarmente una serie di motivi per
cui ho trovato interessante la lettura di questo libro e perché credo che non
sia del tutto fuori luogo parlarne in un sito che si occupa prevalentemente di
fatti letterari.
Chi
mi conosce sa che basta il nome Proust per accendere le papille gustative di
quel po’ d’intelletto che il destino o la casualità ha voluto concedermi. Al
punto che qualche amico, affettuosamente malevolo, ha sparso la voce secondo
cui se uno stratega di mercato avesse l’improbabile idea di chiamare Proust un
comunissimo bagnoschiuma, sentirei l’irrefrenabile bisogno di fare tre docce al
giorno. E sia, non lo nego e ne vado anche un po’ orgoglioso (rispetto ad altre
fissazioni o feticismi…). Però titolo e sottotitolo di questo libro hanno anche
altri motivi per interessare un letterato non fissato o feticista. Anzitutto
l’accostamento tra una delle forme di pensiero e scrittura più complesse e
articolate, quella di Proust, appunto, e una forma del vivente tra le più
semplici e irriflesse, quella del calamaro.
Accostamento che dà un tono affabile e curioso ad una ricerca che si confermerà tale, senza però perdere in credibilità e informazione scientifica. Il sottotitolo, poi, promette uno studio storico ed evolutivo del rapporto cervello/lettura di sicura presa anche per un letterato, in virtù, se non altro, dell’immenso portato di elaborazione culturale che la lettura, nella sua breve storia evolutiva (circa 6000 anni), ha comportato nella vita dell’umanità. Inoltre, per esperienza personale, so che spesso i libri più stimolanti e, talvolta, più influenti per l’elaborazione di pensieri e vedute originali, sono proprio quelli che hanno poco a che vedere con il campo specifico di competenza e applicazione. Sicché un letterato impara e sviluppa punti di vista non asfittici da libri di fronte ai quali deve esercitare più la disposizione all’ascolto umile e credulo per incompetenza che da libri con i quali entra da subito in rapporto dialettico e interpretativo, se non competitivo. In parte legato a quest’ultimo motivo, vi è un’ulteriore ragione che invitava alla lettura di Proust e il calamaro. Chi ha una qualche familiarità con la bibliografia proustiana sa quanto sia vasta e inesauribile, e sa anche che nel volerla suddividere in categorie deve far posto ad una categoria sui generis che dia conto di tutta una serie di libri che prendono spunto dall’opera dello scrittore per parlare di altro (gulag, feticismo, regole di vita, neuroscienza, ecc.). Categoria che andrebbe sotto il nome di “spigolature” o “eccentricità” e sotto la quale si possono trovare libri di sicuro valore (cito solo, per immediata simpatia e portata storica, Joseph Czapski, La morte indifferente: Proust nel gulag).
Accostamento che dà un tono affabile e curioso ad una ricerca che si confermerà tale, senza però perdere in credibilità e informazione scientifica. Il sottotitolo, poi, promette uno studio storico ed evolutivo del rapporto cervello/lettura di sicura presa anche per un letterato, in virtù, se non altro, dell’immenso portato di elaborazione culturale che la lettura, nella sua breve storia evolutiva (circa 6000 anni), ha comportato nella vita dell’umanità. Inoltre, per esperienza personale, so che spesso i libri più stimolanti e, talvolta, più influenti per l’elaborazione di pensieri e vedute originali, sono proprio quelli che hanno poco a che vedere con il campo specifico di competenza e applicazione. Sicché un letterato impara e sviluppa punti di vista non asfittici da libri di fronte ai quali deve esercitare più la disposizione all’ascolto umile e credulo per incompetenza che da libri con i quali entra da subito in rapporto dialettico e interpretativo, se non competitivo. In parte legato a quest’ultimo motivo, vi è un’ulteriore ragione che invitava alla lettura di Proust e il calamaro. Chi ha una qualche familiarità con la bibliografia proustiana sa quanto sia vasta e inesauribile, e sa anche che nel volerla suddividere in categorie deve far posto ad una categoria sui generis che dia conto di tutta una serie di libri che prendono spunto dall’opera dello scrittore per parlare di altro (gulag, feticismo, regole di vita, neuroscienza, ecc.). Categoria che andrebbe sotto il nome di “spigolature” o “eccentricità” e sotto la quale si possono trovare libri di sicuro valore (cito solo, per immediata simpatia e portata storica, Joseph Czapski, La morte indifferente: Proust nel gulag).
Dunque
sbrigata la pratica preliminare, posso riportare qualche riflessione che la
lettura di questo libro mi ha suggerito. Si tratta di riflessioni da dilettante
che ha però un certo interesse culturale per libri scientifici che hanno a che
vedere anche con i principi epistemologici della scienza (e in realtà più o
meno consapevolmente ogni ricerca, scientifica o umanistica, si basa su
principi epistemologici espliciti o impliciti, proprio come ogni atto di vita
si basa su una più o meno esplicita autocoscienza). Ma prima delle opinioni, i
fatti, come direbbe, più o meno in buona fede, un provetto giornalista, o prima
delle interpretazioni, la realtà, come direbbe un accanito lettore delle pagine
culturali dei quotidiani, tutto preso dalla “svolta epocale” rappresentata
dalla polemica tra strenui difensori del post-moderno e fautori del New-realism (mi vedo costretto a ricorrere al global english perché in italiano Neorealismo ha
tutt’altri significati, specie in letteratura). O, in soldoni, prima quel po’ di
informazioni scientifiche che mi è sembrato di apprendere e poi le riflessioni
che mi hanno suggerito.
«Non
siamo nati per leggere»: così comincia il libro, con una notizia, per me,
inaspettata. Il codice genetico della specie umana non prevede un gene
specificatamente destinato all’attività della lettura e questa si è sviluppata
ed evoluta prodigiosamente grazie alla straordinaria capacità del cervello
umano ad adattarsi e plasmarsi in base alle esigenze che l’ambiente o le
necessità vitali gli pongono.
La lettura è nata e si è sviluppata in virtù del
«reciclaggio neuronale», in particolare, i neuroni destinati alle funzioni
visive e alla denominazione di oggetti si sono moltiplicati e una parte di esse
si è specializzata nel riconoscimento e nell’interpretazione di «segni
simbolici». I contrassegni numerici, le cordicelle maya, le tavolette
cuneiformi, i geroglifici, i logogrammi, l’alfabeto semitico e, infine,
l’alfabeto greco erano segni che rimandavano a un referente, a qualcosa che non
era presente, che non poteva essere mostrato direttamente. Il grande balzo in
avanti nella storia del cervello che legge è l’”invenzione” dell’alfabeto
fonetico. Da quel momento tutta l’evoluzione della lettura è andata verso una
progressiva velocizzazione e specializzazione dell’attività di riconoscimento
dei segni linguistici, permettendo al cervello un risparmio di tempo da
impiegare nell’interpretazione e nell’elaborazione di “pensieri nuovi”
suscitati dal testo scritto: «l’efficienza dell’alfabeto greco [ha] portato una
trasformazione senza precedenti del vero e proprio contenuto del pensiero».
Tutta la tradizione orale (dalla quale derivano anche le opere archetipiche
della letteratura occidentale, l’Iliade e l’Odissea) e la
mnemotecnica ad essa connessa (che ha avuto influssi di tutto rilievo
sull’organizzazione retorica del discorso), sono state lentamente e in gran
parte soppiantate dal nuovo sistema di trasmissione e organizzazione del sapere
(con grande preoccupazione e scandalo di Socrate che perciò si ostinava
nell’insegnamento orale, tradito, per fortuna, dal suo allievo Platone). La
velocizzazione della lettura permessa dall’alfabeto greco, rispetto ai
caratteri cuneiformi, ai geroglifici e, più in generale, ai logogrammi, ha
avuto conseguenze storico-sociali rilevantissime, ben riassunte dall’autrice:
«dal punto di vista cognitivo (…) la maggiore efficienza dei sistemi alfabetici
e dei sillabari ha reso possibile l’originalità di pensiero per più persone e
più precocemente nello sviluppo del lettore principiante». Insomma, rispetto
alla casta degli scriba e ai sacerdoti del sapere, l’alfabeto ha donato
all’umanità un più vasto numero di persone in grado elaborare pensieri
complessi e, soprattutto, in età più giovane, con quel quanto di acerbo,
inedito e “ribelle” che ciò comporta. Un motivo in più per considerare la
Grecia antica la culla della democrazia. L’inestimabile vantaggio del cervello
che legge fluidamente è il tempo: più è rapida la decodifica letterale del
testo scritto, più si ha il tempo di attivare il pensiero proprio e i
sentimenti (la parte del cervello denominata sistema limbico). Ovviamente anche
le attuali scritture logografi hanno conosciuto un analogo percorso evolutivo
che ha permesso velocizzazione e specializzazione della lettura. Sebbene
combinare circa 30 segni tipografici per esprimere ogni tipo di pensiero, non
sia proprio la stessa cosa che doverne conoscere e riconoscere ogni volta circa
6000, come nel cinese moderno. E un Pierino malizioso, fregandosene della
correttezza etnica e politica, e sorvolando sulla grande tradizione e qualità
della cultura cinese, potrebbe anche formulare l’ipotesi che l’apparente,
magari non sostanziale, uniformità e conformismo del popolo cinese (con tutte
le eccezioni del caso, non ultima un premio nobel per la letteratura) dipenda
in parte anche da un’evoluzione del cervello che legge meno velocemente che in
altre culture. Se poi il Pierino in questione avesse per caso letto una
notazione diaristica di Roland Barthes nella quale lo scrittore francese, in
occasione di un viaggio in Cina, per altro in un periodo in cui la Cina andava
molto di moda come alternativa al sistema capitalistico, si chiedeva se per il
successo della rivoluzione fosse necessario “rincretinire” le masse, allora il
suddetto Pierino potrebbe anche sorridere con condiscendenza. Al che un buon
insegnante dovrebbe serenamente obbiettargli che anche altri popoli hanno
conosciuto fenomeni collettivi di “rincretinimento” sotto i totalitarismi (i
tedeschi e gli italiani, in particolare). Ma, insomma, tra la storia millenaria
dell’evoluzione naturale e quella secolare della Storia un qualche collegamento
dovrà pur esserci!
Come
il paziente lettore avrà ormai constatato, non sono riuscito a mantener fede
all’impegno di separare le informazioni dalle opinioni, i fatti dalle
interpretazioni. Probabilmente i due livelli sono così inestricabilmente
correlati che il percorso di “decostruzione” e distinzione è pieno di botole
non sempre evitabili. Chiedo scusa e provo ad andare avanti.
Molte
delle informazioni che la scienza attuale sa fornire sulla storia e il
funzionamento del cervello che legge provengono dallo studio della disabilità
che lo riguarda: la dislessia. Il processo della lettura è composito e
complesso e in ognuna delle sue fasi – riconoscimento dei segni simbolici,
corrispondenza tra grafema e fonema, determinazione del valore semantico del
raggruppamento dei segni, la parola, comprensione dei legami sintattici che si
istituiscono nella frase, ecc. – può essere soggetta a disturbi che impediscono
a chi ne è affetto di rifare, in un balzo, la storia naturale del cervello che
legge. In pratica chi perde troppo tempo nella decodifica, non ne ha poi
abbastanza per interiorizzare e collegare i contenuti del testo letto con il
proprio mondo interiore. L’apprendimento della lettura, il passaggio da lettore
neofita a lettore decodificante, da questi a lettore fluido e, in fine, a
lettore esperto è una specie di corsa a ostacoli in cui il cervello ridefinisce
e riconfigura il proprio modo di operare: ma qualcosa può andar storto e anche
un bambino di normale (se non superiore) intelligenza può avere difficoltà
insormontabili per imparare a leggere. E sulla cura della dislessia la ricerca
neurologica, assieme ad altre tecniche d’intervento e ad altre scienze, ha
fatto e può fare ancora molto.
Però
troppo spesso, specie negli ultimi decenni di grande sviluppo della
neuroscienza, ho sentito gridare al miracolo scientifico (ossimoro voluto):
scoperto il gene responsabile di questo o quello (dalla dislessia al gioco
patologico, dagli sbalzi d’umore alle cefalee, ecc)!; oppure, scoperto il
meccanismo neuronale alla base dell’empatia (i cosiddetti neuroni-specchio) o
dell’apprezzamento estetico! E chissà cos’altro ancora i notiziari riterranno
di farci credere. Così anche questo interessantissimo e informatissimo libro
pare reggersi su un assunto epistemologico che non mi convince: ovvero che il
funzionamento (o mal funzionamento) meccanico, biologico e neuronale è alla
base di ogni disturbo fisico o spirituale dell’essere umano. L’autrice sembra
convinta, e cita molti fatti incontrovertibili, che molti ex dislessici hanno
dato prova in seguito di capacità intellettuali non comuni (artisti,
scienziati, imprenditori). E che molti dislessici mostrano un anormale sviluppo
della parte destra del cervello, quella per lo più finalizzata alle intuizioni,
alle configurazioni sintetiche, alle forme e ai colori. La fiducia sulle verità
scientifiche, che, a onor del vero, non sembra ottundere il senso critico di
Maryanne Wolf, porta con sé due corollari che fanno l’occhiolino anche in
questo libro: la modellizzazione e la predittività. L’apprendimento della
lettura da parte del bambino, che avviene in circa 10 anni, è modellato su
quello millenario della specie: «la grande impresa degli inventori
dell’alfabeto greco (…) si ripete inconsapevolmente nella vita di ogni bambino
che impara a leggere». Frasi come queste non possono non lasciare perplessi, se
non altro perché, dal punto di vista culturale, il cervello del primo greco che
ha imparato a leggere è ben diverso da quello del bambino contemporaneo (a
tutto vantaggio del bambino contemporaneo sul piano evolutivo). Alla stessa
maniera lascia perplessi lo sforzo, onesto, per carità, di predire le conseguenze
della rivoluzione digitale basandosi sulla storia e sulla scienza del cervello
che legge.
Ma
anche dimostrando statisticamente la genialità di gran parte dei dislessici
(cosa su cui intuitivamente concordo), bisognerebbe poi chiedersi se il bambino
dislessico è un futuro genio perché è un genio o se è un genio perché è un
dislessico. È la disabilità a creare il genio o è il genio a creare la
disabilità? Il punto di vista “neuronale” sceglie e persegue la seconda
ipotesi, ovvero che la diversa conformazione del cervello del genio crea la
disabilità, il punto di vista “umanistico” dovrebbe viceversa problematizzare e
orientarsi, senza certezza alcuna, s’intende, sulla prima ipotesi. Se la
disabilità e il genio, considerate separatamente o causa l’una dell’altro o
l’altro dell’una, sono interamente riconducibili a meccanismi biologici,
fisiologici e neuronali, avremmo un bel rompicapo storico-culturale nel
constatare che altre importanti categorie storicamente svantaggiate hanno dato
prova di fuoriuscire dalle medie statistiche del rapporto tra intelligenze
comuni e genio. E mi riferisco in particolare agli ebrei e agli omosessuali:
storicamente, socialmente e culturalmente svantaggiati, ma, voglio sperare,
senza nessuna disfunzione genetica o neuronale. L’assunto epistemologico che mi
sembra stia alla base di questo tipo di ricerche taglia fuori dall’esperienza
biografica di ogni singolo individuo l’eredità storica, sociale, etnica,
familiare, nonché la casualità degli incontri e degli accidenti fortuiti.
Esattamente come il calamaro che non impara a nuotare velocemente, sviluppa
altre qualità per continuare a sopravvivere in quello spietato mondo subacqueo,
anche il dislessico, e chiunque soffra di uno svantaggio biologico o
storico-sociale, sviluppa qualità che altri possiedono in misura ridotta. Anche
perché il mondo delle terre emerse non è poi tanto più tenero…E a Pierino
bisognerebbe anche spiegare che ognuno del miliardo di cinesi ha una storia
individuale diversa da tutti i suoi connazionali…