di Veronica Fallini
Lietocolle, 2012
€ 13
La pulizia descrittiva e il modesto
understatement del titolo (Oroscopi) e
del sottotitolo (E altre minute
ossessioni) dell’ultima raccolta di Veronica Fallini possono di prima
battuta trarre in inganno anche il lettore di poesia più navigato: un inganno in
realtà dovuto a eccesso di sincerità da parte dell’autrice. Cerco di sciogliere
l’apparente paradosso, di tramutarlo da frase di facile effetto a effettivo ma
difficile punto d’ancoraggio critico: se infatti - come spesso accade nei
titoli dei libri di poesia - ‘oroscopi’ è sostituzione metonimica per ‘poesie’,
e ‘minute ossessioni’ una loro ulteriore caratterizzazione, allora verrà di leggere
queste poesie come qualcosa di irrilevante: dopotutto, complice le nostre associazioni automatizzate e perciò acritiche,
per noi gli ‘oroscopi’ sono i prodotti di un’arte divinatoria fallace, ingannatrice
e commercializzata; non miglior sorte sembrano avere le ‘minute ossessioni’ del
sottotitolo, che richiamano alla pratica diaristica, all’annotazione privata e
pertanto, ancora una volta e implicitamente, irrilevante. Il titolo ci dice
dunque, alla lettera: “qui non troverai niente di vero, né di rilevante, passa
oltre se vuoi”.
La lettura dell’intero libro inganna
però almeno due volte questa attesa: da un lato, ciò che Fallini fa con la
poesia è rilevante e le corrisponde un senso di verità estrema, che corteggia
gli abissi della sparizione e della morte; dall’altro, queste poesie sono
davvero arte divinatoria per la lucidità e l’ansia con cui interrogano il dopo,
mentre ossessivamente tornano su pochi fulcri tematici che illustrerò in
seguito. Infine, la loro misura sia versale sia testuale ne fa oggetti
linguistici minuti, per l’appunto. Quindi, verità nell’inganno, e viceversa. Scopriremo
inoltre che questa auto-riduzione della propria scrittura è feroce:
feroce come certi commenti in apparenza marginali, calati con finta
nonchalance, e che invece possono disgregare l’osservato e il narrato,
implodendo sotto una superficie che ostenta freddezza e che invece è solo fin
troppo lucida e sofferta.
Non ho potuto non servirmi io stesso di
un linguaggio un po’ metaforico - che normalmente evito - per esprimere
l’ambivalenza e il disagio trasmessomi da buona parte delle poesie di Oroscopi: composte, tradizionali nei
temi e nel linguaggio, apparentemente inoffensive e invece affilate da un
sarcasmo tanto più efficace quanto più alluso; algide perché sottoposte a una dura disciplina che però, in
filigrana, lascia vedere il proprio meccanismo di autodifesa per la
sopravvivenza.
Proprio la sopravvivenza è il fulcro
tematico e compositivo della prima poesia, una metafora continuata tra la
poesia e il nuoto, con tutto ciò che ne deriva: necessità biologica e fisica
dello scrivere a livello tematico, implicito paragone tra il poeta e il
naufrago (reminiscenza ungarettiana del “superstite / lupo di mare”?), proporzione
formalizzabile in poesia : oceano =
parola : goccia nonché sforzo di complementare l’aspetto individuale e
quello generale della specie, menzionata nel testo e a cui ‘sopravvivenza’
allude. I fili tematici della biologia, dell’evoluzione e del cosmo si
dipanano, riemergendo in più punti e fornendo un utile contrappunto al
carattere privato e lirico (spesso più nella forma che nella sostanza) della
raccolta.
Subito dopo la poesia discussa, infatti,
la scienza (chimica, fisica, biologia e matematica) entra in un blending
concettuale con il vincere facile del caso, della lotteria concettualmente
assimilabile al senso derogatorio dell’oroscopo: “stelle moltiplicate per meiosi / milionarie / hanno sbancato i giochi a
premi, / finanziamenti a pioggia nelle notti d’agosto” (16). Il termine
“milionarie”, calembour riferibile
all’età delle stesse e alla somma della vincita, innesca quasi
impercettibilmente questo cortocircuito.
La fusione di cosmico e corporale (un
topos in Dylan Thomas, ma anche, per andare sui contemporanei, in Maria GraziaCalandrone) può fulmineamente realizzarsi in un unico verso: “Schegge di pianeti hanno già modellato le
ossa”, perché “Un imprevisto di
proporzioni universali / ci ha portati qui” (p. 17). Ecco allora che
l’imprevisto oggettivo postulato dalla fisica (il Big Bang, la nascita
dell’universo e quindi della vita) si lega all’azzardo privato dell’oroscopo,
della poesia: una scienza combinatoria ma fallibile anch’essa (anche se, a onor
del vero, nel libro di Fallini le riuscite superano in numero i risultati meno
convincenti, come sottolineerò più avanti).
L’evoluzionismo - sia la storia
dell’universo o quella dell’umanità - è un tema che riappare altre volte, ad
esempio qui: “qualcuno si ricorda che
smuovendo la terra // erano uscite le ossa preistoriche di animali mongoli / sovra
dotati di pelliccia e predazione” (p. 25). Non è una strada nuova -
l’interesse per l’archeologia di un modernista come Charles Olson e il percorso
di un contemporaneo come Fabio Pusterla lo testimoniano - e però è frequentata da altri poeti contemporanei
di rilievo, come Andrea de Alberti nel suo (ancora inedito) Dall’interno della specie. C’è quindi
forse, da più parti, un bisogno di uscire dall’impasse dell’io approdando a un
noi sovra-storico, rispondendo all’assenza attuale della storia con qualcosa
che possa trascenderla non spiritualmente. Qui le scienze vengono in soccorso.
In Fallini, però - e questo credo sia un suo punto di originalità - questa
parte scientifica si fonde con una irriducibilità al lirico, cioè con la
percezione di un monolinguismo riconducibile all’io che enuncia, anche quando
presenta scorci narrativi di oggettiva e straniante freddezza, come questo (p.
22):
Non è suggestione ma spenta pesantezza
il sacco nero deposto sull’argine
da due piantoni che vigilano imbarazzati
la sfinita semenza dello strano prigioniero.
L’avevano persa dietro casa,
uscita con la medicina della tristezza
e la lista della spesa;
dalla via della guarigione ora chiamano:
hanno ritrovato il bastone,
dicono “Adesso glielo riportiamo”.
Una scena sinistra e onirica, uno
stralcio decontestualizzato di dialogo (l’ultimo verso) che mi riporta al De
Angelis di Somiglianze, mentre va
sottolineato anche l’uso efficacissimo dello zeugma (“uscita con la medicina della tristezza / e la lista della spesa”).
Questa poesia può anche valere da esempio per la versificazione e la cura
compositiva della totalità delle poesie del libro: un dettato scandito,
neoclassico nella ripartizione in strofe e nell’uso misurato e solo occasionale
degli enjambements, la monotonia funzionale dei giambi che però si interrompe
nei trocaici perentori degli ultimi tre versi, che non a caso corrispondono a
un cambio narrativo di scena. Testimonia della ricerca fonetica l’inclusione
anagrammatica di ‘spesa’ in ‘spenta’ e di ‘spenta’ in ‘pesantezza’, la catena
di sibilanti da ‘spenta’, passando per ‘suggestione’, ‘sfinita’ e ‘semenza’, e
altre trame che lascio al lettore individuare.
Questa poesia introduce anche altri temi
cardine del libro: medicina e guarigione (vedi anche la poesia successiva, dove
si legge che “lo stato d’assedio
influenza senza tosse / medicamentoso a volte per assuefazione”) e - per
converso - quello della morte. Ed è la morte nelle sue più diverse declinazioni
la vera protagonista tematica della raccolta, esplicitamente presente o
fortemente allusa in almeno una dozzina di poesie. Senza pretese né possibilità
di completezza, mi limiterò qui a illustrare alcune di queste declinazioni. Una
delle assi più proficue è il connubio tra vegetazione e morte già presente in Dante
(Canto XIII): dagli “sterpi sul punto di urlare” (p. 33) alle “orbite dei morti
/ brucianti sotto le radici” (p. 37) fino a una declinazione più estesa nella
poesia di p. 24, dove il “bosco umano” o “erbario minore” dei “bambini di
serra” è legato a doppio filo alla morte implicita nelle “donne scomparse” e
nella “ombra dei grembiuli”. Per non parlare della “selva di morti” e del
riferimento esplicito a Caronte, drammaticamente ricontestualizzato nelle
migrazioni clandestine (p. 28). Ma la morte è anche materialità estrema e dono
paradossale (“La morte ti ha restituito il corpo / così pesante, dopo, / sul tuo
letto di reincarnazione”, p. 44), e quindi una semina, un’offerta
sacrificale e indifferente di sé (p. 20):
Il fiume mi ha lisciato le ossa
ne esco ammessa alla vita senza oggetto
e in stretta osservanza alla regola
della dissipazione mi imbandisco alla semina.
La rastremazione (“lisciato le ossa”)
che tenta l’assenza (“vita senza oggetto”) si ritrova in altri luoghi testuali:
“sono una pendice esoterica sfuggita al
lembo del lenzuolo. // La vita distrae dall’essenziale” (p. 34), la stessa
sezione intitolata “Fantasmi”, con la “crisalide di giunture” e la “rosa
anonimità” (si noti qui il calembour: rosa come fiore, colore, o ròsa, che sta
per “consumata”). Si capisce allora che l’enfasi sulla minutezza delle poesie,
già segnalata dal sottotitolo, ha un corrispettivo tematico in buona parte
delle poesie stesse. Il polo positivo di questa sparizione è però una
riconquistata leggerezza, un’ascesa che libera, come nelle Cartoline che chiudono il libro, anche se ne costituiscono la sua
parte poeticamente più debole e, forse, più dispensabile (per es. in certe
concessioni all’estetismo come “nel prato coglierò un germoglio d’anima / e dall’albero
mandorle in pensiero”, p. 49: ma sospetto che queste poesie, poste a fine
libro, siano in realtà state scritte in una fase precedente).
Morte e sparizione, con la loro
oscillazioni tra il biologico e il rituale, tra il sociale e lo spirituale, hanno
in sé un aspetto religioso (sacrificio, silenzio, attesa…) che è un perno quasi
altrettanto importante in Oroscopi. Non
ci si deve stupire, allora, della ricorrenza tanto di immagini bibliche quanto di
più prosaici riferimenti alle funzioni religiose. Nell’ambito del secondo
elemento, un esempio fulminante per la sua feroce limpidezza è la chiusa della
poesia di p. 37 (per inciso: pochissime poesie sono titolate), dove
un’atmosfera onirica e fiabesca, di rigenerazione (“tempo / sferico e sorgivo”,
“santuari”) viene riportata a una dissonante e straniata sintesi:
Usciti da messa ci bagnavamo i piedi nei fossati,
stupendoci che il miracolo valesse anche per i topi.
Questa poesia deve alcune sue immagini
vicine al nonsenso, come “prati di
vecchiaia si stendevano sulle loro fronti”, a una reminiscenza di Rimbaud,
con la sintesi in un solo verso di diverse immagini presenti nella celebre Vocali: i verdi mari, i pascoli e le
rughe impresse sulle fronti studiose. Questo è, al di là della consapevolezza
dell’autrice, uno scrambling
intertestuale (Riffaterre, 1978). E che dire dell’inquietante sacerdote
domestico, col sigillo alla bocca e che porta “le insegne di specchio e rasoio / incrociate sul petto” (p. 43)? Il
topos del ponte sul fiume (basti pensare a Canzone
del padre di De André, o al Sereni di Un
sogno) è declinato con allusioni religiose in Premio di consolazione, uno degli esiti più alti del libro:
Il fiume macinava i suoi sassi
e ignorava il santo, sentinella del ponte.
Di notte apriva il mantello agli annegati
abbracciati nella nicchia turchina
e diceva loro di sì
con la coroncina di stelle
elettriche.
Il sarcasmo deriva da un diminutivo che
punge: è il dettaglio della “coroncina di stelle / elettriche” (tramutato da
strumento di tortura a regalo da fiera di paese) che allude, senza nominarlo, a
Cristo. Ma più ancora è il titolo, ancora incentrato sul filone della
‘lotteria’ già discusso in precedenza, a incurvare il testo sotto il peso di un
sarcasmo aspramente critico nei confronti della prospettiva consolatoria e
passiva offerta dal cristianesimo. Sembra non esserci poi troppa differenza,
sembra suggerire Fallini, tra il rimettersi al caso dei numeri e delle
estrazioni, e alla volontà di Dio: entrambe le cose implicano una passività
deterministica, e anche un carattere di auto-assoluzione che Fallini sembra
recisamente attaccare, sprofondando piuttosto in una prefigurata
auto-distruzione: “mi allaccerò le scarpe
/ e alla fine saranno allineate / le mie vertebre alla massicciata” (p.
72). È solo nell’atto libero, di chi dice ‘io’ e compie l’azione (anche solo
l’allacciarsi le scarpe) che una fede può paradossalmente ritornare: “seguirti mentre bruci i passi / nel quadro
dell’inverno / è soltanto una questione di fede” (p. 71).
Questa mia trattazione rimarrà comunque
assai incompleta: troppo si è taciuto delle rifrazioni da un testo all’altro,
delle modulazioni ritmiche accuratissime, dell’influsso a tratti della
Szymborska, come a p. 32: “Il tempo degli
oggetti non sa riempire gli attimi / ma solo alle basse frequenze si captano le
voci”. Tuttavia, alla sua luce, mi pare di poter dire che è ingeneroso -
per non dire almeno in parte accecato - il giudizio che sembra trasparire dalla
non benevola prefazione di Mario Santagostini. Santagostini capta acutamente i
principi di auto-distruzione latenti in molti testi, così come la loro
resistenza all’ermeneutica e il senso di pericolo che continuamente ne emerge;
tuttavia, lo fa insistendo sulla chiusura della poesia di Fallini con toni che
vanno all’accusa, neanche tanto velata, di oscuramento dei significati: “un
senso che non si svela, non si manifesta, non si comunica e resta nel fondo”.
L’implicazione che se ne potrebbe trarre - e qui, ancora una volta, l’errore è
di Santagostini nel non suggerire alcun tipo di utilità che si può trarre dal
leggere Fallini - è che quanto abbiamo letto finora è pagina di diario, un
delirio visionario di nessun uso per i lettori, una serie di minute ossessioni.
A me sembra l’esatto contrario - e spero di averlo mostrato in questo mio
attraversamento. Sarà che certi meccanismi di auto-difesa della poesia
autentica, come è senza ombra di dubbio questa di Fallini, selezionano da sé i
propri interlocutori: comune non è l’appiattimento sul fenomenico che al
massimo raggiunge un’acritica o consolatoria (ripetiamo ‘consolatoria’ alla
luce di quanto detto prima) condivisione; comune è la rete di attraversamenti,
altrui e propri - e sempre autocritici - che una poesia del genere, in virtù
sia delle sue abilità tecniche sia delle sue necessità intrinseche, è in grado
di generare.
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