di Silvia Zangrandi
Archetipo Libri Editore, 2011
cartaceo € 14
ebook Kindle € 7,99
Il
presente studio di Silvia Zangrandi, pur non ambendo all’esaustività, si inserisce
a buon diritto entro i validi contributi dedicati al fantastico. L’opera si
distingue per un approccio plurimo alla materia: teoria della letteratura, critica tematica, gender studies e analisi stilistica, in un percorso volto a
dimostrare la specificità dell’esperienza italiana novecentesca.
Cose dell’altro mondo si
apre con un doveroso ed efficace rimando alle principali fonti teoriche sul
genere o, per dirla con Zangrandi, sul “modo” fantastico: appoggiandosi
all’indimenticato Todorov e a Calvino, nonché a Solmi, Pagetti, fino ai più
moderni Ceserani, Lugnani, Secchieri e Lazzarin, l’autrice lo definisce
«un modulo che scardina i nessi causali e temporali, presenta eventi inesplicabili, va a cercare le “aree di frontiera” dentro di noi, scava nella vita interiore dell’uomo e fa emergere, attraverso esperienze perturbanti, forme di conoscenza o sensazioni che appartengono a mondi lontani» (p. 25).
Sono quindi delineate le
specificità del fantastico italiano: nel passaggio tra Otto e Novecento,
Zangrandi segnala casi di riprese e rielaborazioni del repertorio tradizionale,
talvolta rinnovati dall’introduzione dell’ironia (Gozzano) o da un riuso
intellettuale (Pirandello, Papini).
Più marcata è la svolta con Bontempelli,
Savinio, Landolfi, Vigolo e Buzzati: negli anni trenta, si ha un significativo
passaggio dall’inconscio collettivo a quello individuale, che si riflette con
la messa in crisi delle certezze e la rappresentazione delle inquietudini nella
narrativa fantastica. Sotto l’influenza delle nuove scoperte, il fantastico vuole lasciare attonito il lettore: persino i luoghi familiari sono attaccati
dal perturbante, denunciano l’angoscia e lo smarrimento dell’uomo
contemporaneo. Questi tratti si infittiscono nel secondo
Novecento, con uno scavo interiore e una ricerca di sé ancor più accentuati: il
fantastico, da genere di consumo, si sposta verso la metaletteratura e la
denuncia sociale e ambientale, spesso attraverso l’esercizio distanziante
dell’umorismo.
Muovendosi
dal piano contenutistico a quello formale, Zangrandi dedica una riflessione
alla novella, preferita di gran lunga al romanzo: in particolare, la forma
breve, tutta piegata verso il finale, si offre per spiazzare il lettore e creare
suspense. Pertanto, vengono ripercorse le principali strategie per accattivarsi
i lettori: dalla predilezione per strutture metadiegetiche, che diano plausibilità
ai fatti, all’uso della prima persona di un narratore omo- o extradiegetico;
dalle forme più ricorrenti di incipit e di finali, alle modalità per realizzare
la comunicazione di fatti di per sé incredibili.
Un
ultimo paragrafo, che sarebbe interessante approfondire in un futuro studio ad hoc, concentra l’analisi sull’iconicità
e sulla figuratività del linguaggio fantastico: si accenna a figure retoriche,
accorgimenti stilistici e sintattici e giochi lessicali che contribuiscono
all’efficacia diegetica.
Si
arriva alla seconda parte dello studio, votato a un approccio tematico e
di genere. Dapprima, Zangrandi si sofferma sui luoghi topici del fantastico,
rilevando di volta in volta come da città reali (più o meno definite) ci si
muova verso lo smarrimento del personaggio e del lettore.
Zangrandi
apre quindi una ampia e variegata disamina sulle narratrici del fantastico
(Ortese, Garlaschelli, Capriolo, Morante, Romano, Masino, Pugno): la sua
apertura a raggiera sul Novecento abbraccia anche i primi anni del Duemila, per
verificare attraverso puntuali citazioni quanto le scrittrici escano rafforzate
dall’esperienza del perturbante, che è intesa come occasione per conoscere
meglio sé stesse. Una pacificata mescolanza tra sonno e veglia e la presenza
forte di ambientazioni interne completano il quadro, dimostrando quanto la
scrittura femminile sia naturalmente votata all’accoglienza del diverso e non
alla sua violenta esclusione o a una spaventata distanziazione.
Si
torna poi all’approccio tematico, per dedicarsi alla satira applicata al
fantastico, quale espressione di preoccupazione e solitudine dell’uomo
novecentesco. Da un lato, Levi, Moravia, Papini, Buzzati e il più moderno Benni
denunciano l’angoscia per una ricerca scientifica senza confini etici; d’altro
lato, il perbenismo borghese,
il consumismo e le moderne schiavitù testimoniano il naufragio delle relazioni
interpersonali (così in Moravia, Palazzeschi, Savinio, Soldati, Calvino).
C'è ancora posto per il fantastico, oggi? Secondo Zangrandi sono rimaste due vie: intenderlo
quale strumento per riflettere sull’incubo del presente; o, al contrario, farsi
amare beffe del mondo in oggetto, parodiando i temi della tradizione. Un
esempio efficace, che conclude l’affollata rassegna, è il personaggio del
fantasma, che muta via via la sua funzione testuale e, da elemento
terrorizzante, diventa figura rassicurante, perché manifesta che è ancora
possibile, oggi, immaginare.
Gloria M. Ghioni
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