La vita davanti a sé
(La vie devant soi)
di Romain Gary
Biblioteca Neri Pozza, 2005 (1975)
pp. 214
Va subito sgombrato il campo
degli equivoci: non è la storia che fa
la scrittura ma la scrittura che fa la storia. Non che la vicenda sia cosa
da poco: gli emarginati delle Banlieue, la Francia multietnica e i
suoi problemi, protagonisti qui ben prima che in Jean Claude Izzo, Fred Vargas e
Daniel Pennac. Se non ci fosse stato il linguaggio di Gary, sarebbero esistiti questi
scrittori? Non c’è la famiglia Maloussene, sgangherata ma passabile, del prode
Pennac – cito lui perché l’ambientazione è la stessa: Belleville – bensì un
linguaggio moderno filtrato attraverso gli occhi di un bambino che forse è
anche un ragazzo, ma lo scoprirà con calma. Un linguaggio che fa crescere la
vicenda, come ad accompagnarla dall’adolescenza alla maturità. Con umorismo,
poesia, crudeltà.
Il punto di vista del libro è
quello di Mohammed, detto Momò, che racconta in modo semplice e senza pregiudizi.
Circondato da prostitute, alcolizzati e povertà. Poca compassione e un aggrapparsi
disperato a quanto di buono l’esistenza possa offrire. Momò è un «figlio di puttana», sia detto senza offesa, e in Francia
una legge vieta alle prostitute di allevare i figli. Così la mamma di Momò, per
non rinnegare totalmente se stessa, lo fa allevare da Madame Rosa, non solo una
vecchia ex prostituta ma pure ebrea, scampata al campo di concentramento e
arrivata al venerando peso di 95 chili che porta ogni giorno su per 6 piani di
scale. A differenza di altre mamme, quella di Momò non va a trovarlo, lui non
sa proprio chi sia, non sa quando è nato e quanti anni ha esattamente. Tutto
sommato, a dispetto del nome e di un sentito dire acquisito, non è neppure
convinto di essere arabo. Il padre, per ovvie ragioni, pater incertus, nell’universo delle prostitute non è contemplato.
A un certo punto, però, mentre Madame
Rosa sta per cedere all’arteriosclerosi, si presenta un tizio, un arabo, con un
certificato unto e bisunto dov’è scritto che Momò è suo figlio. Come per
miracolo però Madame Rosa ha l’ultimo
sussulto di lucidità: imbroglia talmente carte e discorsi che finisce per
far credere che il figlio del tizio non è il musulmano Momò ma l’ebreo Moïse, un
altro bimbo che tiene a pensione. Al tizio prende un colpo, così l’equilibrio
nella casa-pensione è salvo.
Di cosa è fatto questo
equilibrio? È fatto di periferia degradata, d’accordo, piena di razze, colori,
lingue e religioni, ma soprattutto da una duplice preoccupazione che tiene
avvinghiati Momò e Madame Rosa. Momò ha il terrore di perdere Madame Rosa, Madame
Rosa ha il terrore di vedere la vita di Momò perduta per sempre. È questo lo scambio umano che diventa
motore della costruzione linguistica di Gary, che tiene salda l’unità di
luogo del libro, la pensione di madame Rosa, e allo stesso tempo condiziona le
variazioni tematiche e i personaggi di contorno: Hamil, il vecchio venditore di
tappeti musulmano a cui Momò deve molto, Madame Lola un generoso trans
senegalese, ex campione di boxe, N’Da Amédée, il protettore nigeriano che gira
con le guardie del corpo e va da Madame Rosa affinché lei gli scriva delle
lettere alla sua famiglia, visto che è analfabeta, il signor Walumba con la sua
tribù, il mangiatore di fuoco della stanza al quinto piano, il dottor Katz che cura
Madame Rosa.
È il linguaggio che dà la
dimensione di questo affetto totale tra una donna oramai di una bruttezza
indicibile e un bimbo da lei protetto. Mentre
Parigi non luccica affatto, dispersa in grandi palazzi dove gli immigrati
coltivano una loro esistenza, in una dimensione che non è la loro. Eppure anche
il quadro più squallido ne esce trasfigurato: gli occhi di Momo che da sguardi
diventano parole, nella periferia di una metropoli degli anni Sessanta, scovano,
e ci fanno scovare, bellezza in mezzo al degrado, il degrado di tante vite e di
un mondo che l’innocenza rende incredibilmente vivibile.