Scrittore autobiografico, autore della memoria e della
rievocazione del tempo dell’infanzia, Luigi Meneghello è tra i narratori del
dopoguerra che propongono una sperimentazione linguistica nuova affiancando ed
intrecciando la propria ricerca memoriale a quella grammaticale e linguistica;
con soluzioni che mescolano l’italiano e il dialetto Meneghello propone una
narrazione che ha il sapore di un’ampia indagine antropologica e culturale di
un mondo rurale e popolare ormai quasi estinto. In questo modo ci presenta un personalissimo
spaccato di vita che contiene la storia del suo paese nativo Malo, i modi di
vivere, il dialetto e le parole dimenticate attraverso la particolare andatura
di un racconto poetico.
La
prima opera di Meneghello, Libera nos a
malo, viene pubblicata nel 1963 per Feltrinelli quando all’epoca l’autore
ha poco più di quarant’anni. Il racconto è interamente ambientato a Malo; al
paese sono dedicati vividi e affettuosi ricordi e qui i protagonisti della
narrazione sono gli abitanti, la folta cerchia familiare di Meneghello, i
compagni e le compagne d’infanzia, i personaggi e i luoghi caratteristici che
hanno connotato in modo significativo la sua vita a cominciare dagli anni trenta.
Le
vicende sono raccontate in prima persona: Meneghello è contemporaneamente
narratore e personaggio. Sotto un’apparenza dispersiva, come se l’autore avesse
annotato qua e là i suoi appunti di vita, il libro presenta invece
un’organizzazione calibrata fondata sull’alternanza di capitoli di differente
argomento memoriale.
L’opera si compone di una prima parte
piuttosto composita, in cui prevale la tematica dell’infanzia: l’autore unisce
i ricordi del periodo infantile alla ricostruzione lucida e ironica di quel
mondo popolare in cui viveva. Nella seconda parte invece prevale il rapporto del
protagonista con il paese: il racconto è qui anche un’occasione per
riattraversare l’epoca storica tra le due guerre mondiali, concentrando lo sguardo
sulla vita di un paese di montagna.
Più o meno verso la metà di Libera
nos a malo, Meneghello si sofferma a parlare ampiamente della propria
lingua attraverso meccanismi di associazioni lessicali, deformazioni
fono-morfologiche, trasporti dal dialetto alla lingua, conte infantili e canti:
La lingua aveva strati sovrapposti: era tutto un intarsio. C’era la gran divisione della lingua rustica e di quella paesana, e c’era inoltre tutta una gradazione di sfumature per contrade e per generazioni.Strambe linee di divisione tagliavano i quartieri, e fino ai cortili, i porticati, la stessa tavola a cui ci si sedeva a mangiare. Sculièro a casa nostra, guciàro dalla zia Lena; ùgnolo presso il papà, sìnpio presso di noi. Si sentivano lunghe ondate fonetiche bagnare le generazioni: lo zio Checco non disse mai gi, neanche nei nomi propri, solo ji; del resto anche mio padre che jèra piuttosto che gera. Anche la morfologia era a incastro.[1]
Nella narrazione il dialetto, la
lingua madre, permette all’autore di riavvicinarsi al mondo dell’infanzia con
uno strumento che, esplorando il mistero della vita, ne indaga in qualche modo
anche il senso. La parola poetica per Meneghello è sempre stata campo di
indagine continuo tra realtà e letteratura. Alla vigilia dell’ottantesimo
compleanno, nel rilasciare un’intervista a Franco Marcoaldi, l’autore si
sofferma a riflettere sul significato di una propria particolare abitudine cioè
quella di riprendere costantemente in mano gli appunti; il processo di
scrittura per Meneghello è stato un processo continuo. Tutti i suoi libri sono
in qualche modo collegati tra loro come “vasi intercomunicanti”e c’è dentro lo
stesso fluido che passa dall’uno all’altro come un continuo narrativo. L’opera
intera di Meneghello rappresenta quindi lo specchio della sua vita: euforie,
disincanti, speranze, depressioni, progetti, nostalgie, sentimenti di pietà, ma
anche di ammirazione e di amore verso il grande valore dell’esistenza sempre
alla ricerca fondamentale di un “nocciolo nella materia primordiale”:
Decine di migliaia di fogli riscritti parola per parola. Sapevo che procedendo così stavo accontentando più me che gli altri […]. Una volta ho cercato di teorizzare questa ricerca attorno allo scrivere e al pensare che sta dietro allo scrivere […].
Ecco quando arrivi a toccare quella sostanza vitrea, trasparente, che sta dietro ogni elemento del mondo, hai compiuto la cosa più bella che ti possa capitare.[2]
Mariangela Lando
Social Network