La ferita dell'aprile
di Vincenzo Consolo
Einaudi, 1977 (2^ edizione)
pp. 138
Era
il settembre 1963 quando il primo1
romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell'aprile, fece
la sua apparizione nel mondadoriano “Tornasole”, diretto
da Gallo e Sereni e fortemente orientato alla ricerca del nuovo.
Proprio per la carica sperimentale della collana, il testo ebbe una
ricezione alquanto elitaria; perché Consolo s'imponesse
all'attenzione della critica e del pubblico si dovettero aspettare
gli anni successivi, in particolare il 1976 con Il sorriso
dell'ignoto marinaio.
Ma in questo libro d'esordio dell'autore di Sant'Agata di Militello
si trovano già in nuce molti elementi, temi, particolarità delle
prove narrative più mature.
In
quell'anno in cui videro la luce grandi capolavori della nostra
storia letteraria, come sottolinea Giulio Ferroni, “Consolo sembra
percorrere una strada tutta sua, lontano sia dalle operazioni di tipo
formalistico, dalle delibazioni estetizzanti, che dagli
stravolgimenti avanguardistici e neoavanguardistici”.2
Partendo dall'espressionismo verghiano per poi imboccare una
direzione originale, l'autore – allora solo trentenne – dava già
dimostrazione della sua capacità di analisi e riflessione storica,
consegnandoci una prosa narrativa tesa allo scavo nella memoria e nel
passato, personale e collettivo.
L'inizio del romanzo, con la splendida similitudine della strada
arrotolata come un nastro suggerisce subito l'idea del ricordo che
prende forma dalla parola narrata:
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso avvolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l'odore di beccume, la ruota che s'affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti. [p.3]
La
ferita dell'aprile può
considerarsi la storia di una crescita, il quadro di un periodo
particolare dell'esistenza, l'antefatto di una vita che ha da venire.
Tutto costruito sul modulo del racconto biografico in prima
persona e diviso in dodici brevi capitoli, il romanzo racconta la
vita del giovane Scavone in un paese della costa settentrionale della
Sicilia, rievocato con un po' di nostalgia e al lettore regalato con
la giusta dose di lirismo:
Questo paese è una grata, i vicoli incrociati, quelli piani trasversali e gli altri che scendono dritti fino a mare [..] laggiù, lo specchio di acqua chiara, un vetro azzurro in fondo al vicoletto. Ma verso l'alto c'è lo schermo della terra, le colline verdegrige con gli ulivi e gli agrumeti. Questo paese sembra posato tra le zampe d'un cane accovacciato, chiuso com'è i in questo rettangolo collinoso in riva al mare. [pp.121-122]
È
il secondo dopoguerra e il protagonista, orfano di padre, trascorre
un anno all'Istituto religioso del paese, luogo-prospettiva dal quale
Scavone i suoi amici osservano il mondo che li circonda. I litigi di
cortile e le prove di vera amicizia, i riti religiosi, i rapporti con
gli americani e la distribuzione dei pacchi alimentari, la conoscenza
di un nuovo frate educatore, l'esplorazione dei primi desideri
sessuali, i viaggi in compagnia dello zio Giuseppe, il gioco del
Monopoli.. la vita è scandita da attimi di piccoli piaceri, dialoghi
ed eventi che segnano la formazione del personaggio. Sullo sfondo dei
momenti di vita minuta, si scorgono tra le righe i grandi fatti
storici: la strage di Portella della Ginestra, le elezioni
amministrative dell'aprile 1947, lo scoppio del colera a Palermo,
l'eruzione dell'Etna dello stesso anno e, file rouge di tutta la
narrazione, l'anticomunismo clericale che permea l'educazione dei
ragazzini, primo segnale di un'incipiente Guerra Fredda.
“Avvenimenti personali di
scarsa incidenza e altri di più profondo impatto sono alternati
senza essere organizzati su un asse prospettico che consenta di
disporli in ordine di importanza”3:
a Consolo non interessa subordinare il personale al politico.
Il microcosmo raccontatoci
dall'autore colpisce per la sua ritualità. Come su un palcoscenico,
i personaggi partecipano alle funzioni religiose (particolarmente
evocative le scene dell'interruzione della novena di Natale e della
processione pasquale) e a quelle “sociali”.
Scavone recita nel salotto della
Baronessa e nello studio del Rettore dell'Istituto; sua madre
nasconde la relazione con il cognato per poi sposarlo una volta che
la cittadinanza glielo impone; i ragazzini fingono di trovare
interessanti le prediche della domenica; Filì porta con sé l'amico
e lo rende spettatore nascosto di un rapporto sessuale con una donna
adulta. Consapevoli degli artifici entro i cui confini si muovono,
sanno di essere un po' attori e partecipano tutti a questo “gioco
delle parti”.
Accanto al mondo sociale, ecco la
recita in quello familiare. Su tutte le figure spicca quello dello
zio Giuseppe Scavone su cui il ragazzino opera una completa
proiezione della figura paterna assente. Protagonista indiscusso
dello spettacolo familiare, a lui il ragazzino dedica tutto il suo
amore filiale:
Era un giorno d'agosto e di calura e tornava di campagna in un bagno di sudore. Mi chiamò dentro e mi disse di sfilargli i borzacchini, di lavargli con l'aceto i piedi sfatti. Mi parve un re, un santo, assiso sul cassone, le mani sulle cosce, lo sguardo sopra di me in ginocchione a sfregargli i piedi immensi nel bacile di rame con l'aceto. [p.34]
Uno degli aspetti più
interessanti della struttura del romanzo è la duplicità di funzione
del protagonista. Narratore e personaggio, la sua voce ha assoluta
centralità: da un lato è impegnato a vivere le dinamiche della vita
in paese, dall'altro a raccontarle. Sia nell'agire che nel narrare,
però, Scavone è distante dal dare giudizi e dall'attribuire
definizioni. Registra quel che vede con l'aridità del catalogatore,
non sempre ha piena consapevolezza di quello che succede nel mondo
degli adulti, e il percorso di formazione è lontano dal dirsi
concluso. Ovunque domina l'instabilità dei momenti di passaggio.
Ci sono due “dati saldamente
pre-diegetici”4
a cui si accenna continuamente nel corso del libro ma che non vengono
mai raccontati: la morte del padre e l'abbandono di un paese di cui
non si pronuncia mai il nome e nel quale si può facilmente
riconoscere San Fratello. Con la sua parlata di derivazione
gallo-italica, il paese sui Nebrodi che farà la sua comparsa anche
nelle opere successive di Consolo (Lunaria,
Il sorriso dell'ignoto marinaio, Le pietre di Pantalica),
è come un marchio sulla figura di Scavone, che tutti chiamano
“zanglè” perché parla una lingua speciale, diversa da quella
dei suoi coetanei che per questo spesso lo deridono e lo fanno
sentire diverso.
Arriviamo a questo punto alla
lingua de La ferita
dell'aprile, così
audacemente costruita sul doppio asse lingua-dialetto, mai
contrapposti ma, al contrario, immessi l'uno nell'altro. La lingua di
Consolo è intrisa di oralità, si nutre di canti liturgici e
popolari, di canzoncine politiche (Quando
sarà abolito il capitale/ le piante daran gnocchi con la bagna/ e
invece di patate pere e mele/ avremo confettini e pandispagna, p.68)
e di scanzonate rime dialettali, interiezioni e modi di dire. Come
sottolinea Daniela La Penna5,
la struttura su cui si costruisce il testo è il pervasivo discorso
indiretto libero, “punto di incontro tra diegesi e mimesi” e che
non è difficile individuare come una
chiara eco verghiana:
La capo ciurma le chiama puttanelle, zoccole, sempre la testa là voi ci avete, e loro cantano a struggimento s'è maritata Rosa Sarina e Peppinella, col canto e controcanto, ed io che sono bella mi voglio maritar. [p.74].
Il testo procede per immagini
staccate che hanno il ritmo delle stagioni. Basta leggere queste
righe sull'arrivo della primavera in Sicilia per sentire gli odori di
una terra, intravederne i colori, intuirne i sapori:
Primavera prescialora che non lascia di dire è cominciata. La conca s'appende nel dammuso tirata oro con cenere e limone. Voglia di insalata sul terrazzo, voglia d'aceto, nespole agrimogne. I vecchi, lo scialle sulle spalle e le coppole sugli occhi, si portano nel sole a scatarrarsi, a togliersi l'inverno dalle ossa, disegnano il terreno col bastone, spaventano l'uccello e la lucertola. Le donne sui balconi, alle finestre, sciolte le crocchie, ripassano i capelli, fino alle spalle, fino alla vita, conservano i batuffoli nelle crepe per le rose di carta, centrini a punto croce, bambole d'organza e falpalà. I pittori, cappelli di giornale, sbarazzano i catoi, trespidi e tavole, testate e materassi sopra il marciapiede; la calce e gli scopini fanno la primavera, bianco e cilestrino, rosa cotto, giallo giudeo. [p.73]
La ferita dell'aprile è un
romanzo che non ha nulla da invidiare ai testi del Consolo successivo
in quanto a complessità e profondità tematica. Gli studiosi si sono
interrogati sul senso della parabola di Scavone, dandone diverse
interpretazioni. Giancarlo Ferretti, nella sua preziosa introduzione
alla riedizione Mondadori del 1989, legge il libro come un “romanzo
sul problema del potere” e sulla “carica liberatoria della
diversità”; Alberto Cadioli ha, invece, sottolineato l'aspetto
della formazione, sancita dal finale dell'opera e dall'ingresso del
protagonista nel mondo degli adulti.
- Ecco, - pensavo, - la vita è un gioco di maretta: avere l'occhio fino a capire il momento per gridare «arripa!» e scivolare col legno sulla cresta. Un po' prima, un po' dopo, sbagliare il tempo, per ansie o dubbi o titubanze, significa farsi pigliare sotto, e travolgere, e sbattere nel fondo […] uno che pensa, uno che riflette e vuol capire questo mare grande e pauroso, vien preso per il culo e fatto fesso. E questa storia che m'intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare, non è segno di babbìa? [p.105]
Nel microcosmo siciliano si
condensa una riflessione dai toni elegiaci sull'uomo e sulla storia.
Come nella Trezza di Verga, nella comunità di Consolo c'è
spazio per un'etica, per una filosofia della vita, e non è certo un
caso che anche qui sia affidata al mondo del mare.
Claudia Consoli
Edizione di riferimento: Vincenzo Consolo, La ferita dell'aprile, Torino, Einaudi, 1977.
1Il
romanzo era stato preceduto solo da un racconto breve intitolato Un
sacco di magnolie, composto durante gli anni universitari
milanesi e pubblicato sulla rivista «La
parrucca»
nel 1957.
2La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di
Vincenzo Consolo, a cura di
Giuliana Adamo, Lecce, Manni Editore, 2006, p.7.
3Ivi,
pp.18-19.
4Ivi,
p.19.
5Il
saggio cui faccio riferimento è Enunciazione, simulazione di
parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e
linguistico-stilistiche su La ferita dell'aprile di Vincenzo Consolo
contenuto nel già citato volume La parola scritta e
pronunciata (p. 13).