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CriticaLibera: “La simmetria dei desideri senza l’equilibrio della pace”

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Foto di Marco Caneschi

Israele ha avuto grandi scrittori fin dalla nascita dello Stato ebraico nel 1948, quello fondato dai sopravvissuti di Auschwitz, quello del socialismo dei kibbutz e di Ben Gurion: Oz, Yehoshua, Grossman, Sharansky, Tammuz, Kaniuk. Per introdurre però un viaggio in Israele mi sento di proporre l’ultimo che ho scoperto: Eshkol Nevo, autore de “La simmetria dei desideri” (Mishalà ahat yemina) edito da Neri Pozza nel 2010. Quattro amici si frequentano fin dall’infanzia ma hanno scelto come rito irrinunciabile il ritrovarsi in occasione dei mondiali di calcio. Una volta, in attesa della partita, scrivono dei bigliettini dove lasciano traccia dei loro desideri. Appuntamento fra quattro anni per scoprire se quanto scritto si sia avverato.


Foto di Marco Caneschi
Ma in quattro anni la vita va avanti. Così alla successiva finale scoprono che i desideri di uno sono stati realizzati da un altro in una perfetta... simmetria. Si può scrivere di Israele senza incappare in Intifada e Mossad? In questo libro la questione palestinese resta una sorta di rumore di fondo, è la vita normale che cerca di prevalere, dove i sogni di un ragazzo ebreo sono i sogni di qualsiasi ragazzo occidentale: dal viaggio in India al rimorchiare a una festa. Tuttavia, proprio perché normale, l’esistenza nasconde inevitabilmente amori e tradimenti che non è detto non lascino ferite altrettanto profonde. L’escamotage letterario di Nevo, che delinea gli sviluppi della trama seguendo un doppio io narrante, contribuisce a rendere il romanzo un inseguimento. Protagonisti: il personaggio per il quale tifiamo fin dalle prime pagine e l’amico che, in fondo, speriamo si riscatti.
Foto di Marco Caneschi
“La simmetria dei desideri” è ambientato tra Haifa e Tel Aviv. Haifa scende dal Monte Carmelo fino al porto sul Mediterraneo. Monte Carmelo-Saint Michael’s Mount, Cornovaglia: unendoli sulla carta geografica, abbiamo la linea esoterica che tocca i siti dedicati all’arcangelo Michele, che con un colpo di spada scaraventò nelle viscere il ribelle Lucifero. Monte Sant’Angelo in Puglia… la famosa Mont Saint Michel… Sant’Angelo di Metelliano, a due passi da casa mia... Sul Carmelo, di sera, cala il refrigerio e agosto in Israele non scherza. La convivenza fra appartenenti alle tre religioni monoteiste crea un’atmosfera rilassata. Ci sono molti arabi-cristiani. Il fine settimana si complica: scordatevi kebab di venerdì in una bottega gestita da musulmani o felafel in un negozio ebraico di sabato. Ma Haifa ha una quarta religione poco conosciuta e ospita il Vaticano di questo credo: i seguaci si chiamano Bahá’í. Un solo Dio, un solo genere umano, ogni fede è uno stadio progressivo della rivelazione. Giardini e tempio Bahá’í, stile Taj Mahal, sono un’oasi di quiete.
Haifa è la base logistica per escursioni verso le misteriose Safed e Akko. Safed è una città sacra all’ortodossia, gli ebrei vi giunsero dalla penisola iberica scacciati dall’oscurantismo cristiano. Poi si aggiunsero i marrani, gli ebrei che inizialmente provarono a convertirsi al cattolicesimo. A Safed fiorirono gli studi su Torah e Cabala. Entrare nelle sue sinagoghe, architettate sulla numerologia, è muoversi tra Pitagora, Plotino, Boezio e Maimonide, perfino Bach: tre, nove, dodici, l’Uno. Con il buio, Safed, sembra un gigantesco ghetto senza cancelli. Chassidim in completo nero e riccioli fin sotto le orecchie, anche i bambini, mettono a disagio. Ma al mattino, ecco la sorpresa: un quartiere di artisti, un piccolo Greenwich Village o se volete una Montmartre della Galilea. Da buon quartiere di artisti è pieno di riferimenti dissacranti e sperimentalismo figurativo. Sacro e profano, accanto. Sefirot e post-moderno. Lanciare razzi su Safed, così hanno fatto gli Hezbollah, è come bombardare i monasteri francescani del nostro Appennino.

Foto di Marco Caneschi

Akko è la San Giovanni d’Acri di Marco Polo, un luogo dove Medioevo e Mediterraneo si fondono in una simbiosi che ancora sa di Crociate. Città visibile e città sotterranea si alternano come uadi del deserto. Il sottosuolo conserva memorie calpestate da templari e ospitalieri, dalla famiglia Polo, da Francesco d’Assisi, da Tedaldo Visconti, che protesse i mercanti veneziani prima di diventare pontefice nell’interminabile elezione di Viterbo con il nome di Gregorio X. San Giovanni d’Acri, estrema scommessa del feudalesimo in Terra Santa, cedette alle orde di Saladino nel 1291, quando il potere temporale della cristianità sparì per sempre dai luoghi della predicazione di Gesù. Akko o Akku: va bene sia il nome ebraico che arabo. Ci sono un hamam, il bagno turco, da Mille e una notte, e la moschea di al-Jazzar, lo sgozzatore: cupola verde e marmo bianco riflettono una luce pazzesca. I katiuscia dal Libano si sono accaniti perfino qui dove la storia si è fermata.
Foto di Marco Caneschi
Tel Aviv è come una east coast: se i newyorkesi hanno Long Island e i bostoniani Cap Code gli abitanti di Tel Aviv hanno Jaffa per sorseggiare vino e mangiare pesce nei carissimi ristoranti del promontorio. Nella piazza dove Isacco Rabin trovò la morte per mano di un compatriota, si rende omaggio al generale. A Tel Aviv sono saltati in aria troppi autobus e molte sono state le vittime. Non sorprende la presenza nel vocabolario degli ebrei di un termine che identifica il padre al quale è venuto a mancare il figlio, l’equivalente di orfano ma a parti invertite. Nelle lingue indoeuropee non c’è: la nostra cultura considera naturale che siano i figli a seppellire i padri. Invece, durante la millenaria storia del popolo ebraico, quest’illogico dramma si è ripetuto tanto da partorire un’espressione significante: orim shqulim.
Ed ecco Gerusalemme. La sognarono i profeti fin dalla prima diaspora. Il sionismo non sorse in Svizzera a fine Ottocento, ma con Daniele ed Ezechiele nel VI secolo a.C., in un ghetto della Babilonia di Nabucodonosor. La storia è un eterno ritorno, avevano ragione i greci e Nietzsche. Il pericolo che minaccia Israele è accampato sempre a oriente. Nabucodonosor oggi si chiama Ahmadinejad. L’arteria principale della parte est, quella riconquistata dagli israeliani con la guerra dei Sei Giorni si chiama Sultan Suleiman Street, Largo Sultano Solimano per intendersi. Solimano il Magnifico, il conquistatore nel nome di Allah che cinse Gerusalemme di bastioni. Dentro le mura, quattro quartieri: arabo, cristiano, ebraico, armeno. Sono finzioni nominali dovute alla presenza in quei pochi isolati di luoghi simbolo come la basilica del Santo Sepolcro perché il cuore storico di Gerusalemme è un gigantesco suq che odora di fritto e contrattazioni, narghilè e backgammon. L’unica veramente estranea è la piccola ma tenace comunità armena, cristiano-monofisita: una taverna, un ceramista, monaci che celebrano messa incappucciati come massoni e testimonianze del massacro perpetrato dai turchi durante gli anni della prima guerra mondiale.
Al tramonto, sciamano inesorabili gli ebrei verso il Muro del Pianto, quanto resta del secondo tempio distrutto dai romani, dove si custodiva l’Arca dell’Alleanza, luogo sacro e inviolabile dell’identità di un popolo, del suo patto con Dio. Ora, sopra il Muro, c’è la spianata delle moschee, la maniera islamica di concepire e trasmettere l’idea di un legame supremo. Sharon, figlio della Nazione che ha elaborato questo principio d’identità e salvezza, nel 2000 non doveva passeggiarvi per di più con la scorta armata. Ha violato un Tempio pur sapendo qual è il significato di Tempio. Yerushalaim vuol dire Città della pace in ebraico. Gli arabi la chiamano al-Quds: la Santa. È così impossibile farla diventare la Città Santa della Pace?