Elvira la modella di Modigliani
Carlo Valentini
Graus editore, 2012
Pp 111
11,90
“Morte lo colse quando giunse alla gloria”
Essere ritratti da Modì, si era
soliti dire nell’ambiente, era come “farsi spogliare l’anima”. L’ambiente è
quello di Montmatre e Montparnasse, il ritratto in particolare campeggia sulla
copertina del libro di Carlo Valentini: “Elvira
la modella di Modigliani.”
La figura assorbe e occupa
tutto lo spazio, ha una compostezza illimitata, una presenza lievemente
asimmetrica; il tratto ricorda le maschere africane, il corpo femminilissimo possiede,
però, una solidità maschile, l’ovale del viso è raffinato, la bocca dolce, l’espressione
consapevole e malinconica. È Elvira la Quique,
di cui Valentini ci narra la storia in una biografia romanzata, a metà fra narrazione
e saggio.
L’autore rivaluta e mette in
risalto questa figura, oscurata dall’ultima compagna di Modì, la mite Jeanne
Hebuterne, famosa per la fine tragica. Diverse le due donne, diversi i ritratti
che le rappresentano. Dolce, ingenuo, quello di Jeanne, inquietante e, insieme,
carico di sentimento, malinconia e comprensione, quello di Elvira.
La Quique è figlia di una
prostituta, a Parigi finisce per fare il mestiere della madre oltre che la
cantante. Ha un corpo conturbante, occhi e capelli scuri. Entra subito nell’ ambiente
delle modelle, che, nude e impudiche, posano per i pittori di Montmatre e
Montparnasse.
Da un uomo all’altro, eccola
nelle braccia di Amedeo. Lo amerà tutta la vita, fra litigi e
riappacificazioni, fra tradimenti e dispiaceri.
Se Jeanne sarà la compagna dell’anima,
la madre dei figli, l’elettivamente affine, Elvira, ci dice Valentini, è
qualcosa di più, è colei che – pur nella differenza di sensibilità, di cultura
e d’intenti – più di ogni altra ha condiviso con Modì lo stile di vita, il
bisogno di “essere e fare”, l’elan vital.
“Elvira sopportava, pagava questo prezzo per tenersi un uomo che la trattava da vera donna, la capiva, condivideva i viaggi nei fantasmi dell’allucinazione, la ritraeva sulla carta o sulla tela strappandole il suo vissuto interiore con pose appassionate e carnali e un certo sensualismo animale che mascherava la sua dolorosa fragilità. Per Elvira era come guardarsi allo specchio, felice e orgogliosa di contemplarsi e poter essere contemplata, femmina che sogna e fa sognare.” (pag 56)
Elvira e Amedeo vivono una vita
più di stenti che bohemienne, ma non
si risparmiano. Si amano, si sfidano, addentano tutti i piaceri della carne,
dell’arte e della vita, fra assenzio, hashish e cocaina (di cui Elvira si
renderà schiava fino ad ammalarsi e perdere la voce). Come le altre modelle, è
sempre senza veli, pronta a posare ma anche a fare l’amore, quasi che le due
cose coincidessero, fluissero naturalmente l’una nell’altra. Le pennellate sono
lingue che si cercano, i colori sono umori che si fondono, che colano sulla
tela. Il romanzo di Valentini trasuda carnalità, attinta proprio dai quadri, dai
seni pesanti, dai triangoli rigogliosi, esibiti senza malizia, col senso di
qualcosa di serenamente necessario.
I dialoghi risentono e,
insieme, traggono vantaggio, dall’essere frutto di ricerca d’archivio su
documenti inediti. A parlare sono direttamente i protagonisti, il loro modo di
esprimersi artificioso non suona tuttavia falso in questo retroterra d’avanguardia,
dove operano Picasso e Utrillo, dove si muovono pittori infervorati d’arte e droga,
insieme a modelle discinte e sensuali, capaci di condividere aspirazioni e
trasgressioni, ristrettezze e manie di grandezza. Un ambiente dissoluto e assoluto,
crogiolo di cultura, di sperimentazione artistica. Amedeo non dipinge come
nessuno. Amedeo usa colori africani e pastosi, luci rosate, dove balenano
tratti neri. Ama le sue donne e non si lega davvero a nessuna, se non forse a
Jeanne quando sente arrivare la fine.
Ma la magia del libro sta,
soprattutto, nella rievocazione d’ambiente. Montparnasse con i suoi vicoli
sordidi, il Bateau-Lavoir dalle pareti sottili, dove litigi e amplessi sono di
dominio pubblico, dove si patiscono freddo d’inverno e caldo d’estate. Vediamo gli
squallidi tuguri dai letti sfatti, i pavimenti cosparsi di bottiglie vuote, le
lenzuola macchiate d’olio di sardine.
Amedeo dipinge con furia,
consapevole della fine imminente, della gloria che arriverà solo postuma; tossisce,
la sua mano trema, ha il cervello infiammato, le compagne gli si confondono nella
mente: la raffinata Anna diventa la battagliera Beatrice, la Jeanne di buona
famiglia trascolora nell’entreneuse
Elvira, colei che ama, che segue da lontano, che aspetta e che soffre.
Sarà questo ambiente, sarà
tutta questa gente che accompagnerà Modigliani nell’ultimo viaggio, quando il
carro sfilerà per le vie di Parigi, seguito da un lungo corteo di pittori, di modelli,
con gli artisti di Montmatre e Montparnasse riuniti.
E, dopo tutte le vicissitudini,
dopo che la fragile Jeanne si sarà gettata dalla finestra insieme alla creatura
che porta in grembo, sarà ancora una volta Elvira – claudicante, afona, sopravvissuta
alla prigione e a una condanna a morte – a posare sulla tomba della sfortunata
ragazza, come suggello di una vita intera, l’ultimo mazzo di fiori, quello che Amedeo
non può più donare alla sua compagna.