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Il Salotto - "Il conto da pagare": intervista a Maria Teresa Valle

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Il conto da pagare
di Maria Teresa Valle
Fratelli Frilli Editore, 2013

www.mariateresavalle.it



Da poco in libreria per Fratelli Frilli Editore, Il conto da pagare è l'ultimo romanzo della scrittrice genovese Maria Teresa Valle. Protagonista Maria Viani che indaga su un omicidio la cui soluzione è tutta nel passato della vittima. Attraverso la formula del noir, la scrittrice ci restituisce un romanzo trasversale: se da un lato gli elementi tipici del genere non mancano, dall'altro presta molta attenzione alla parte storica della narrazione andando a scavare sulle conseguenze umane di uno dei periodi più bui della storia del nostro Paese, gli anni di piombo. Chi è Arnaldo? E soprattutto è lui l'unica vittima? Ho cercato di capirlo facendo a Maria Teresa alcune domande.


D: Il conto da pagare si apre con una pagina dove sono elencati tutti i personaggi che intervengono nella narrazione, come in un copione teatrale. Come mai quest'attenzione, graditissima, verso il lettore?

R: È una consuetudine comune a tutti i miei romanzi. Le ragioni sono molteplici.
Ho cominciato a leggere, giovanissima, i "Gialli Mondadori". Sempre si aprivano con l'elenco dei personaggi. Erano tutti nomi inglesi, difficili da ricordare. Spesso nel corso della lettura tornavo alla pagina iniziale per verificarne qualcuno. L'ho sempre trovata una buona idea.
Un secondo motivo è la mia scarsa memoria. È facile che mentre scrivo dimentichi il nome che ho dato a un personaggio. Così, mano a mano che compaiono in "scena" li annoto nella prima pagina, dove poi restano.
Un terzo motivo è, per così dire, di ordine "enigmistico". Nell'elenco c'è sempre il nome dell'assassino. Sta al lettore attento capire...


D: Il narratore ha tutta l'aria di essere il tuo alter ego nel romanzo. Come nasce Maria Viani? E quanto di Maria Teresa Valle c'è in questo personaggio?

R: Maria Viani è la protagonista di tutti miei noir. È sicuramente nata da una mia costola. Nel primo romanzo " La morte torna a settembre" eravamo quasi sovrapponibili. Pare che sia una costante l'urgenza autobiografica nel primo libro che si scrive.
Io non ho fatto eccezione.
Forse nell'avventurarmi su un terreno sconosciuto avevo bisogno di ancorarmi a qualche cosa che conoscevo bene.
Fino al giorno prima, infatti, avevo scritto solo articoli scientifici, legati alla mia professione, se si eccettuano i raccontini che scrivevo da bambina, quando, avendo letto tutti i libri che possedevo, e non avendo soldi per comperarne di nuovi, riempivo così il mio bisogno di parole scritte.
Tornando a Maria, devo dire che procedendo nella scrittura, è diventata sempre di più un personaggio autonomo e staccato da me, pur conservando il carattere che io le avevo dato.
Mentre nei primi romanzi io narravo di lei, negli ultimi si racconta da sola, arrivando a parlare in prima persona.
È difficile farle fare quello che voglio e quindi la lascio agire come crede. Si muove bene, è un bel personaggio, un personaggio a tutto tondo, molto "normale", ma mai banale, esce dalla carta. È ossa e sangue.

D: Tu porti avanti la narrazione su due piani: uno presente e uno passato. In questo modo dai al lettore un enorme vantaggio su Maria Viani che fino a tre quarti del romanzo non conosce la storia del morto e dell'assassino. Al contrario un lettore esperto è in grado di intuire la soluzione del caso a metà libro. La cosa sorprendente è che i meccanismi logici che l'hanno condotto alla soluzione sono gli stessi che vi condurranno Maria. Come è nata l'idea di strutturare in questo modo un romanzo giallo? E non ritieni che più che un giallo Il conto da pagare sia un romanzo storico (nella misura in cui i fatti narrati sono verosimili)?

R: La scelta di portare avanti la narrazione su due piani, uno presente e uno passato è un espediente che mi piace particolarmente. L'ho già sperimentato nel romanzo "Le trame della seta". In quel caso si trattava di una vicenda ambientata nella Genova del '500.
Ne "Il conto da pagare" ho scelto il trucco rubato alle sceneggiature cinematografiche in cui lo spettatore sa, perché lo vede, più di quello che sa il detective. È il plot che vediamo nella serie televisiva del "Tenente Colombo" per intenderci.
Le altre strade possibili sono fare in modo che spettatore e detective di fronte a un delitto abbiano le stesse informazioni: in questo caso arrivano contemporaneamente alla soluzione. Oppure decidere che gli spettatori ignorino indizi noti solo al protagonista, nel qual caso c'è un colpo di scena finale che svela il meccanismo del delitto.
La prima modalità , che non è molto consueta nella letteratura noir, mi sembrava la più adatta per poter sviluppare la storia del passato in modo lineare, consentendomi una libertà di narrazione che non avrei potuto avere altrimenti.
Per rispetto verso il lettore cerco sempre di fornire la possibilità di usare meccanismi logici per arrivare alla soluzione e in genere sono gli stessi che usa la protagonista. Per questo ad esempio non mi piacciono le soluzioni che fanno ricorso al magico o all'alieno. Credo che in questo la mia formazione scientifica mi condizioni fortemente.
Io non so se il mio si possa definire romanzo storico o meno. Tutto sommato mi importa poco etichettare quello che scrivo. Spero solo che piaccia e che il mio editore non si stufi di pubblicarmi.

D: Insisto sulla questione del romanzo storico. Dedichi molta attenzione all'aspetto psicologico della cellula terroristica, quasi a restituire anche la dimensione umana della Storia che spesso si perde nelle indagini accademiche e non. Hai fatto ricerche o è tutto frutto della tua “immaginazione” (virgolettato perché rimaniamo nel campo del reale e del possibile)?

R: Ho dedicato molto tempo alle ricerche. È una delle cose che più mi intrigano in tutta la faccenda della scrittura.
Ho letto libri scritti da ex-terroristi, da giornalisti, da parenti delle vittime.
Ho rivisto le puntate sul terrorismo di programmi come "La storia siamo noi" e "Correva l'anno". Ho letto interviste, consultato i giornali dell'epoca, ma soprattutto ho attinto ai miei ricordi.
Sì, perché io c'ero. Nella Genova degli ultimi anni '70 io ero una giovane donna, madre di due bambini piccoli e moglie di un dirigente dell'Ansaldo.
Ricordo molto bene il discorso di Luciano Lama al funerale di Guido Rossa, ricordo l'impressione quando ferirono Castellano,appunto un dirigente dell'Ansaldo.
Ricordo come nessuno si sentisse sicuro. Come tutti si avesse l'impressione di poter diventare un bersaglio.
Credo che questo abbia contribuito a rendere la vicenda "verosimile".

D: Una domanda leggera, per smorzare prima del finale. Nel romanzo inserisci molte ricette tipiche della tradizione gastronomica ligure. Personalmente sono dell'idea che la cucina sia uno dei tratti distintivi di una cultura, non si tratta di cibo e basta. Cosa ne pensi (visto che negli ultimi anni da Vázquez Montalbán a Camilleri hanno tutti dato una dimensione gastronomica ai loro eroi)?

R: Mi ha colpito un'intervista sentita recentemente. Un ligure emigrato in Australia ricordava, in un dialetto che forse oggi nemmeno esiste più, che laggiù la comunità ligure si incontrava. Non avevano più nulla del loro paese, nessuna tradizione, quasi neppure più il ricordo, tranne la focaccia e il pesto. Ancora erano in grado di cucinare questi due cibi.
Nell'inserire le ricette nei miei libri io non faccio un'operazione consapevole o un calcolo per seguire una moda. Maria è una donna. Maria cucina e usa il cibo a volte per far parlare un brigadiere reticente (La morte torna a settembre), a volte per farsi perdonare dal marito (L'eredità di zia Evelina), a volte,come ne "Il conto da pagare" per consolare, confortare la sorella ed esorcizzare il dolore con i gesti antichi della preparazione di un piatto. Oggi la dimensione del noir consente una libertà che nel giallo classico era impensabile.


D: Altra domanda leggera. Vi sono alcuni momenti esilaranti che riguardano la vita privata di Maria, tra cui anche il furto di Lampo per il suo particolare talento o le infuocate di Francesco che la protagonista sembra accogliere di buon grado. È un modo per dimostrare che c'è un lato della vita che va gustato, assaporato e colto al volo? Basta un attimo per perdere tutto questo.

R: I momenti esilaranti fanno parte della vita di Maria. È una donna vera, vivace e, qualche volta anche un po' birichina. Il fatto che le piaccia indagare nelle situazioni delittuose non deve farci pensare a lei come una "dark lady".
Ho messo tutto il mio impegno perché questo personaggio sia l'esatto opposto degli stereotipi dei detective/poliziotti della letteratura. Non è "sopra le righe". È quanto di più normale si possa immaginare. Come tale ha i suoi momenti malinconici, ma sa cogliere quello che la vita le offre di buono. Ha la capacità di essere ironica e ha la concretezza della migliore tradizione femminile. L'avere frequentazione con la morte le fa apprezzare la vita.
E normale è l'ambiente in cui si aggira. Del resto, cosa c'è di più spaventoso dei delitti della porta accanto?

D: Torniamo seri. Il Pivello dopo aver combinato il suo guaio torna con la coda tra le gambe dal padre consegnandosi a quella classe sociale che fino a pochi minuti prima detestava. In realtà questo personaggio è assalito dal dubbio ben prima e la vista del figlio di Tagliaferri gli apre definitivamente gli occhi. Personalmente vedo qualche spunto da “romanzo di formazione”. Non puoi negare che Il Pivello ha una sua evoluzione...

R: Non nego nulla. Credo di aver descritto un fenomeno che negli anni '70-'80 ha riguardato effettivamente un certo numero di giovani. Diciamo che non tutti sono arrivati al terrorismo, ma ho dei ricordi di quando ero all'università che mi hanno suggerito il personaggio del Pivello.
Non vorrei aggiungere altro.
In questo ritorno del Pivello dal padre io vedo tutta la sconfitta di un'ideologia. Come vedo nel personaggio del padre l'incancrenirsi di tutto ciò che il figlio avrebbe voluto combattere.
Doppia sconfitta. Al di là delle morti, e delle ferite, trovo questo il risultato più drammatico.

D: Ne L'uso della vita. 1968 (Transeuropa, 2013), Romano Luperini racconta in forma di romanzo il “maggio pisano” fermandosi al primo gennaio 1969, anno della strage di Piazza Fontana. Tu termini la tua narrazione nel passato, nel 1980, anno della strage di Bologna. In mezzo sappiamo cosa successe. Come mai, secondo te, quest'attenzione a quel periodo? Pensi che la letteratura si possa sostituire alla Storia? Mi spiego: nelle scuole a mala pena si arriva a studiare la seconda guerra mondiale, tralasciando un pezzo importante del nostro passato che ha conseguenze sul nostro presente. E tu lo dimostri pienamente.

R: Personalmente il mio interesse e la mia attenzione sono nate dalla constatazione di quante persone sono qui in mezzo a noi, legate in qualche modo a quel periodo. E di quel periodo portano i segni. Appartenute che siano alla schiera dei "carnefici" o a quello delle "vittime".
Sono sempre meravigliata di come, a livello ufficiale, si chiudano certi periodi storici con pietre tombali su cui si scrive il nome delle vittime, una bella corona di alloro il giorno della commemorazione, una veloce riabilitazione dei colpevoli, e con questo si pensa di avere fatto i conti col passato.
Restano invece vivi tanti di quelli che in questo passato hanno avuto una parte. Restano con i loro conti in sospeso. Da pagare o da riscuotere.
Solo per fare un esempio, ho ascoltato recentemente Massimo Coco, figlio di quel Francesco Coco, ucciso nel '76 dalle Brigate Rosse, presentare il suo libro "Ricordare stanca". Alla domanda che riceve spesso se abbia perdonato gli assassini di suo padre è costretto a rispondere che dopo più di 30 anni ancora non sa chi abbia sparato al padre e agli uomini della sua scorta. Non passa giorno che lui, la madre, il fratello non siano perseguitati dal ricordo di quello che è successo.
Non so se la letteratura si sostituisca alla storia, né se ciò sia possibile, ma un romanzo può raccontare comunque uno spaccato di realtà.
Quello che siamo è conseguenza di quello che eravamo. Se non abbiamo capito a fondo il fenomeno, se non lo abbiamo sviscerato e ricomposto, con onestà e pazienza, abbiamo costruito sulla sabbia.

D: Nella bella lettera ai lettori alla fine del libro scrivi: “La mia personale curiosità si rivolge invece all'uomo, come essere soggetto alle emozioni, a loro volta provocate dai fatti e dalle circostanze. L'uomo, come ultimo gradino della scala degli avvenimenti. L'uomo troppo spesso sacrificato nel panorama della storia. L'uomo di cui nessuno racconta la fatica di stare a galla nel mare delle grandi epopee”. Permettimi di dirti che hai colto nel segno di quello che è il compito del romanzo e del romanziere, Guido Mazzoni (Teoria del romanzo) scrisse che “nulla è importante, se non la vita”.

R: Con grande umiltà mi rivolgo a quelle pagine drammatiche della nostra storia, per guardare le persone. La loro vita. La nostra vita.
Io vedo i grandi avvenimenti, ma anche ad esempio le decisioni politiche, come qualcosa che ha due livelli di conseguenze: uno sull'andamento di cose astratte come l'economia, la diplomazia, il rapporto tra le nazioni, i poteri forti, il decoro della nazione, la giustizia, l'amministrazione, l'industria, ecc ecc. e l'altro sulla vita delle persone, la loro sopravvivenza, la loro dignità, la possibilità di mandare i figli a scuola, di trovare un lavoro, di prendere un treno, di avere una medicina, di poter comprare il pane.
A me piace capire la vita, la vita delle persone, e raccontarla.