Presentazione di Snuff, o l’arte di morire, di
Salvatore Mannuzzu
Sassari, Aula Magna del Rettorato
23 maggio 2013, h. 18
A. M. Morace - S. Mannuzzu - M. Manotta |
La grande sala del rettorato è piena quando, dopo mezz’ora
di autografi, saluti e strette di mano, inizia il bell’incontro che ha visto
protagonista Snuff, l’ultimo romanzo
di Salvatore Mannuzzu, uscito da poco per Einaudi. Sì, possiamo dire che
proprio il testo è stato al centro delle riflessioni dei professori Aldo Maria
Morace e Marco Manotta, nonché dell’autore stesso, che ha preferito all’esegesi
autoreferenziata un po’ di sana autocritica, sempre velata d’ironia:
Vi confesso che è strano dare un contributo al proprio coccodrillo, corpore presenti!, ha esordito.
Ma prima che Salvatore Mannuzzu prendesse la parola, i
professori hanno introdotto al meglio l’opera entro il panorama letterario
contemporaneo. Ha cominciato Aldo Maria Morace, che ritiene Mannuzzu il massimo
vertice della narrativa sarda contemporanea e certamente uno dei maggiori della narrativa
italiana di oggi. Ha quindi delineato il percorso narrativo dello scrittore, a partire
dal tardo esordio nel 1988 con Procedura,
con la quarta di copertina della Ginzburg, fino a Le fate dell’inverno, che nel 2004 avrebbe dovuto segnare la
conclusione della produzione creativa. Fortunatamente, la scrittura di
Mannuzzu non si è interrotta, e ha regalato ai suoi lettori questo Snuff, che riprende il movente
ispiratore costante della sua narrativa: il dubbio, che pone l'uomo davanti all’enigma e
conduce a meditare sulla finitezza creaturale. Con il precedente Le fate dell’inverno, Snuff ha alcuni elementi
in comune: la metrica del racconto (12 capitoli); un vecchio protagonista che
deve convivere con la propria vecchiaia amara; un tentativo di esorcizzare lo
spauracchio del ricordo; la presenza di una donna giovane che attraversa
l’ultimo barlume della vita; una meditazione attenta, quasi crudele, sul
peccato e sul dolore.
Se veniamo al romanzo, è colmo di simboli e segni, mentre si
cerca di sconfiggere la paura della morte e, al tempo stesso, di prepararcisi.
Per Morace, si tratta di un romanzo «impietoso e catartico», indice della
necessità di porsi intrepidamente davanti alla morte e agli enigmi. Con la sua
ricerca tensiva verso Dio, questa prova è «la più alta e impervia» dello
scrittore sassarese, che tiene a precisare che l’opera non è in alcun modo
autobiografica.
Mannuzzu e gli autografi |
Il protagonista dell’opera, Piero, è un settantacinquenne
malato, che accetta di farsi portare dal suo allievo Beau in barca,
all’Asinara. Piero sente che quello sarà il suo ultimo viaggio, e il mare
diventa occasione per riflettere con l’allievo sul dolore della vita e sulla
morte che si avvicina inesorabilmente. Quando Piero lascia intendere che non
intende aspettare la morte per il cancro ormai avanzato, Beau gli propone di
partecipare a uno dei suoi “snuff movie”, ovvero di farsi riprendere nelle
diverse fasi dell’agonia, fino all’ultimo respiro. Ma la trama riserva
straordinari colpi di scena che non si possono svelare, ma sempre però secondari rispetto alla riflessione e
al dialogo.
Come rileva Marco Manotta, questo dialogo non è un semplice
espediente: l’Altro provoca l’anamnesi e porta Piero a tornare al suo passato,
a individuare e affrontare il senso di colpa per una serie di eventi-tragedie
che hanno costellato tutta la vita del vecchio. Nel segno dell’understatement, si innesca una
confessione impietosa: non si finisce mai di scontare la propria pena, e questo
è giusto, sembra suggerire l’autore. In particolare, la dimensione più
annichilente è scoprire «l’incapacità dei ricordi di iscriversi in un orizzonte
di senso». Allora la soluzione è cercare l’analisi oggettiva, spietata se
vogliamo: e questo per Manotta fa pensare a motivi di vicinanza con il Quare
tristis di Raboni (e al suo rifugiarsi nella forma del sonetto per rilevare
la mancanza di senso); ma riconduce anche al racconto della Mansfield La mosca, in cui il dolore per un lutto recente è filtrato e si
sfoga nell’osservazione sadica di una mosca che annega nell’inchiostro.
Una parte della platea |
Per quanto riguarda Dio, secondo Manotta questo non è totalmente in silenzio, ma una voce appena percettibile, talvolta coperto dal rumore di fondo della narrazione. E' d'altra parte necessario, e proprio l'universo di cose superflue fa passare Dio da una necessità logica a una ontologica.
Quando Mannuzzu prende la parola, è nel segno dell'ironia. L'esordio modesto, giocoso, fa sorridere a platea, attentissima. Poi anche l'autore parla del proprio libro, benché tenga a sottolineare che non deve presentare il proprio romanzo, perché non lo troverebbe giusto. Piuttosto, preferisce parlare dei due input che l'hanno portato a questo libro. Da un lato, vi è la personale attenzione riposta negli ultimi anni all'arte di morire, il «fare i conti con l'oscura terribile dolcezza della vita», di cui si dice al tempo stesso «apprendista e alunno». Già nelle Fate dell'inverno testimoniava questo interesse, e così nella rubrica quotidiana tenuta su «Avvenire» col titolo "L'arte della monaca": in realtà, per la seconda stagione della rubrica, vorrà proporre "L'arte di morire", titolo che probabilmente sarà rifiutato. In più, ha pubblicato di recente Il cristiano senza qualità, una sorta di diario, in cui sono presenti scritti di Fofi, in cui si interroga sul trapasso.
Il secondo input è invece di matrice storica: il deficit storico universale di senso e di riferimenti, di valori, è indice non solo della fine della vita di Mannuzzu, ma della fine del suo tempo. E pare opportuno terminare il ricordo di questo incontro con le parole dello stesso Mannuzzu, che riassumono al meglio Snuff o l'arte di morire:
«Dallo sbaraglio della mia vita e dallo sbaraglio della Storia, deriva la necessità che Dio ci parli».
Gloria M. Ghioni