Pomo pero. Paralipomeni d'un libro di famiglia
di Luigi Meneghello
Rizzoli, Milano 1974
Una continuazione e
un approfondimento della materia di Malo si ha in Pomo pero Paralipomeni d’un libro di famiglia, volume che esce per
Rizzoli nel 1974.
Il titolo del libro si rifà ad
un’invitante filastrocca infantile nella quale il bambino è invitato a
scegliere fra due mani a pugno quella che non è vuota.
Il
volume è arricchito dall’innesto sapiente e particolarmente creativo di modi
popolari e gergali, un gioco linguistico sul passato che consente di accedere a
speciali sfere della realtà, difficilmente raggiungibili con il solo uso della
lingua italiana.
Per quanto riguarda contenuto e struttura del libro, si
tratta di un corpo diviso in due parti intitolate «Primi» e «Postumi». Nei
«Primi» che prendono avvio dalla nascita dell’autore, frammentariamente vengono
narrati episodi che riguardano le prime esperienze.
Lo stesso Meneghello ci racconta di aver tentato in Pomo
pero di riprendere «certe nuove vibrazioni semi-segrete della materia
antica di Libera nos»[1],
facendo quasi un esercizio di autoanalisi freudiana: «Certamente ci sono dei
rapporti significativi con l’inconscio»[2].
Nella sezione «Postumi» Meneghello ha voluto invece
raccontare una particolare disgregazione del mondo delle sue origini: il
dissolversi di un universo di parentele, conoscenze, vecchie amicizie. La
narrazione presenta tutta la crudezza e
il dispiacere che accompagnano questo riconoscimento. Frammenti di vita che non
erano entrati nel racconto di Libera nos
a malo vengono ripresi in questa seconda parte di Pomo pero.
In riferimento alle persone che non avevano trovato spazio
nella prima occasione, l’autore afferma: «Ho sentito il sugo umano della loro
resistenza alla vecchiaia e a tutto ciò che ne consegue».[3]
Nell’appendice intitolata Ur Malo, Meneghello si riferisce scherzosamente a Goethe per
esporre un concetto importante sulla materia dei suoi libri: «Come c’è l’Ur-Faust, non è naturale che abbiamo anche noi
l’Ur-Malo? Con questo volevo certo far sorridere i lettori, ma anche asserire
qualcosa di serio, una piccola polemica, non già contro qualcuno, nessuno mi
contraddice in queste cose, ma dentro di me. Volevo dire che anche la materia
più umile, se è trattata come si deve, ha la stessa dignità di qualunque
altra».[4]
Nella seconda sezione di Pomo pero la lingua
comincia ad assumere una fisionomia non soltanto descrittiva ed evocatrice del
mondo paesano: attraverso sperimentazioni come certi elenchi di parole,
accostamenti di vocaboli che formano delle
filastrocche, diventa piuttosto la lingua dell’io, espressione libera
dell’ anima in una mescolanza di fantastico e reale.
La scrittura per Meneghello è sempre il frutto di
un’attenta analisi, un’osservazione, una teorizzazione attorno alle cose, uno
scavo nel proprio passato.
Uno degli aspetti primari dell’opera meneghelliana è
l’attenzione data al dialetto quale lingua della realtà; attraverso la
rivalutazione di una visione infantile del mondo, Meneghello riesce a
utilizzare il linguaggio dialettale come griglia di conoscenza, attraverso la
quale egli legge la realtà dei rapporti all’interno dell’ambiente paesano di
Malo.
Per gran parte della narrazione in Pomo pero lo sguardo sulle cose è quello del bambino, che si
avventura nei terreni accidentati e fascinosi dell’iniziazione linguistica,
operazione con cui lo scrittore filtra costantemente il racconto
dell’esperienza umana nel mondo.
Mariangela Lando
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