Fiori italiani
di Luigi Meneghello
Rizzoli, Milano 1976
Il libro Fiori
italiani esce nell’ottobre del 1976
per Rizzoli. In quest’opera Meneghello
tenta di rispondere alla domanda: «Che cos’è un’educazione?».[1]
La risposta consiste in una ricostruzione minuziosa di
tutte le tappe dell’apparentemente facile e felice carriera scolastica di S.,
alter ego narrativo dell’autore. È probabilmente il libro più divertente, ma
allo stesso tempo più feroce e critico di Meneghello.
«Noi siamo vasi di fiori» si sente dire un giorno il
professor Meneghello da uno studente, «voi dovreste coltivarci delicatamente,
farci fiorire»[2]. Da questa affermazione di
un giovane allievo nasce il titolo di Fiori
italiani, la storia di un’esperienza scolastica nell’Italia degli anni
trenta. S., il protagonista, come l’autore, a dieci anni lascia il paese natale
e va a Vicenza per continuare gli studi. Raccontando gli anni della scuola,
dalla primaria all’Università, nei propri libri Meneghello ripercorre le tappe
di una formazione intellettuale e sociale in una delle tante realtà provinciali
segnate dall’avvento del fascismo. Dedica molte pagine alle prime esperienze
nelle classi elementari, perché in questo periodo il protagonista si trova a
dover integrare l’universo dialettale della famiglia e della cultura paesana
con l’esercizio delle facoltà intellettuali, e lo sviluppo della personalità,
attraverso un nuovo linguaggio, le nuove regole della lingua italiana. Il luogo
deputato all’istruzione e all’apprendimento è anche il primo ambiente
istituzionale incontrato dal protagonista nel proprio percorso di formazione.
La scuola di questi anni assorbe e riproduce nel contesto didattico pratiche e
direttive del regime fascista. La formazione intellettuale del protagonista
viene così a coincidere con l’attraversamento di un mondo che, rispecchiando
l’ideologia dominante, tende a imporre ai giovani studenti un modello culturale
indiscutibile e retorico. Raccontare gli anni scolastici, dall’infanzia
all’adolescenza, fino all’università, è dunque per lo scrittore anche
l’occasione di indagare, testimoniando attraverso la propria esperienza un
preciso momento della cultura italiana, le complesse dinamiche di
un’educazione.
In Fiori italiani si mescolano il romanzo, l’autobiografia e il
saggio attraverso la rielaborazione singolare di un’esperienza vissuta. La
domanda iniziale riguardante l’educazione accompagna Meneghello per
tanti anni, a suo dire fin dai tempi della guerra. L’autore racconta di essersi
la prima volta interrogato in merito al significato dell’educazione nel 1944,
appena scampato ad un rastrellamento in Valsugana. E la questione si ripresenta
vividamente nel 1964, mentre sta raccontando l’avventura della resistenza ne I piccoli maestri.
Lo scrittore affronta il viaggio
attraverso questi anni difficili utilizzando il proprio tipico equipaggiamento
letterario: l’ironia, lo scherzo, il paradosso e la trasfigurazione mitica
delle cose e degli avvenimenti. Ma trattando la specifica materia scolastica
l’autore aggiunge un elemento, il sarcasmo, utilizzato per criticare lucidamente
le storture e le assurdità della cultura fascista, stemperando al contempo il
dolore in una nota acre ma non tragica, semmai tragicomica.
Qui il lettore può ritrovare vividamente raccontato tutto
ciò che si insegnava e si imparava a scuola negli anni tra le due guerre. Il
libro, a differenza di Libera nos a malo
e Pomo pero, presenta una
strutturazione che segue il filo cronologico degli avvenimenti.
S., riflettendo sulla sua esperienza di studente, esprime
un giudizio severo su un sistema scolastico che gli appare sclerotizzato e
soffocante. Dai banchi delle scuole elementari il racconto arriva agli anni
dell’adolescenza, visti soprattutto come l’incontro con la lingua letteraria,
che i vecchi professori amano definire aulica. Il dialogo di Meneghello con il
passato, attraverso la finzione letteraria, è attraversato da una punta di
amarezza, ma compare sempre a stemperarne l’effetto una particolare forma
d’ironia:
Se c’è qualcosa di vero nell’idea con cui ho vissuto per tanti anni, che in fatto di lingua (parlata) il bambino, ogni bambino è geniale, dove va a finire questa genialità nel momento in cui il bambino comincia a scrivere? Quello che è certo è che S. (geniale o no che fosse stato quando sapeva solo parlare) come scrittore riuscì eccezionalmente scadente. Non mi riferisco a compiti o esercizi di scuola ma allo scrivere in proprio, bizzarra nozione. [3]
La narrazione, proiettata al
passato, non trascura il punto di vista dell’autore adulto, che
riapprocciandosi con il mondo dell’infanzia, lo osserva con affetto, simpatia e con grande ironia.
Mariangela Lando
Social Network