Rien va
di Tommaso Landolfi
Adelphi, Milano 1998
Prima edizione: Vallecchi, Firenze 1963
10 [giugno 1958]
Non energia mattinale: quotidiana. Si può giurare che io non avrei, in primo luogo messo penna in carta, e comunque cominciato a scrivere questo diario, non fosse stato per necessità (igienica). Codesto aggettivino tra parentesi è in senso letterale; non di igiene dello spirito si tratta, ma del corpo; queste qualunque pagine son quelle che mi permettono in questi giorni di sopravvivere fisicamente.
Il "diario" (o presunto tale) si concentra sull'estate de 1958 e prosegue, tra battute d'arresto e riprese più o meno convinte, fino al 1960. Si tratta di un diario di occasione: accompagna la nascita e la primissima infanzia della figlia Idolina, chiamata affettuosamente e ironicamente "la Minor", ma tratteggia anche il rapporto con la moglie ("la Major") e con la paternità. Si tratta di una lotta combattuta sul campo degli affetti: la Minor sfodera le armi della dolcezza per abbattere le difese e le riserve di papà Landolfi. Ogni piccolo progresso viene registrato dallo scrittore-diarista con incredulità: il legame genitore-figlio si sviluppa quasi suo malgrado, e non vale a nulla cercare di radiografare il rapporto. Al contrario, si stabilisce un filo strettissimo, innato e innegabile, tra i due.
Dicevamo, diario di occasione; non solo: Rien va è anche un interessante diario letterario, che paradossalmente cerca con tutte le forze di sfuggire al tasso di letterarietà dirompente, tipico delle opere landolfiane. L'obiettivo, infatti, sarebbe proprio quello di riuscire a sfuggire al dettato sorvegliato, attentissimo e letterario che caratterizza le opere di Landolfi, per abbandonarsi alla scrittura spontanea tipica delle scritture dell'io:
Riuscirò, qui almeno, a non scegliere le parole? Finora sembra di sì.
Questa è la preoccupazione di Landolfi, ma occorre sempre chiedersi se anche questa non risponda, in realtà, a un'operazione letteraria da parte di un'intelligenza beffarda e giocosa. Il crinale tra autenticità e letterarietà è sottilissimo, e al momento non ci sono documenti che provino questa o quella ipotesi. Certamente, una frase come la seguente, cambierebbe alla luce di una rivelazione:
12 [giugno 1958]Dopo fiere lotte (avevo cominciato a scrivere Io, e mi son vergognato e ho corretto in Dopo: ancora e sempre, imperterrito benché furioso con me stesso, e come il mondo e l’anima mia fossero immobili, io seguito a piantare i miei Io in testa al drappello delle parole, quasi portabandiera!), dopo fiere lotte mi son rassegnato, ho detto, alla paternità sulla fede di Dostoevskij.
A trattarsi di opera letteraria concorrerebbe una lettera che lo stesso Landolfi ha spedito all'editore Enrico Vallecchi, nel giugno del1960, preannunciando un diario, con chiare allusioni alla pubblicazione:
Oh Dio, ho anche altro, che dimenticavo di dirti. Lo rimando a una prossima lettera. Pensa: un diario!
Anche l'anno successivo, davanti alla proposta di collaborare per un grande giornale, probabilmente il "Corriere della Sera", si allude alla possibilità di attingere da questo fantomatico diario; tuttavia, Landolfi preferisce tenere il "bischero diario" ancora segreto, in vista di una possibile pubblicazione.
Diario di occasione e diario letterario. Molto letterario: ovunque c'è la scrittura, vorticosa, fagocitante, raziocinante e a volte tortuosa, che frustra l'autore e lo lascia perennemente insoddisfatto. I rari autocompiacimenti sono subito dopo sviliti da un'auto-svilimento perenne, che fa procedere il testo tra continui ripensamenti. La correctio è senza dubbio il procedimento che più marca i diari landolfiani: una frase è subito dopo ripensata, e la parentesi è un vero e proprio mezzo di fustigazione. Landolfi si bacchetta, e sminuisce di conseguenza la sua opera e, in particolare, il diario: la sua inutilità, Leitmotiv in tanti diari novecenteschi, è portata alle estreme conseguenze («22 [giugno 1958] - Questo
diario comincia a diventare soffocante: tante cose e tutte inutili. Voglio dire
che se anche non lo fossero di per sé, così appena segnate non potrebbero
egualmente servirmi»). Anche la ricerca letteraria dello stile è maledetta, senza mezzi termini, ed è testimonianza "dell'io odioso":
11 [febbraio 1959]“Ero… ero almeno…”: bravo, bell’effetto letterario. Si gioca dunque anche a ingannare se stessi? (E questo cos’è, se non un altro effetto letterario? Sembra che neppure dalla letteratura si scappi. Lasciamo stare la condanna universale, la condanna alla vita etc., e le sue possibili modalità; limitiamoci a dire che, a quanto pare, ciascuna cosa nominabile, cioè nel punto stesso che si definisce e prima ancora che venga definita, è una trappola, alcunché da cui non potremo mai più salvarci. Pare che la realtà in cui ciascuno dei suoi vari e infiniti aspetti sia una pietra tombale che si richiude su noi. – Qui poi bisognerebbe precisare in che accezione uso la parola Condanna, che sarebbe lungo e inutile).
Gloria M. Ghioni