A Firenze, incontro con Dan Brown e il suo "Inferno"


Firenze, 5 giugno 2013. Se Dan Brown avesse scritto il pezzo che state leggendo, probabilmente questa prima frase sarebbe stata consacrata alla bellezza del Palazzo Vecchio. Se la sottoscritta avesse avuto almeno un pizzico dello charme dei personaggi femminili del ciclo Langdon, avreste trovato subito dopo un'accattivante descrizione del mio ingresso nel Palazzo: mi avreste seguita lungo le scale affollate di turisti, guidati - voi e io - da bianchi cartelli in cui, sopra cerchi concentrici, una freccia simile a quella di certe bussole d'antiquariato indica la via da seguire per la Sala dei Gigli (e per l'Inferno). Entrandovi, con tutta probabilità ci saremmo soffermati ad ammirare le pareti istoriate con scene dalla storia romana e cristiana, illusioni prospettiche degli affreschi, la quieta ricchezza del soffitto a cassettoni. Probabilmente avremmo fatto una piccola sosta a una delle finestre da cui si può ammirare uno scorcio del panorama fiorentino (Dan Brown avrebbe detto: lo skyline). Ma per ovvie ragioni - in fondo, la descrizione dell'opera d'arte è sempre funzionale a uno sviluppo dell'intreccio, no? - avremmo infine spostato l'attenzione da tanta bellezza al palchetto al centro della sala, su cui troneggia il protagonista della giornata: l'ultimo romanzo di Dan Brown, Inferno.
E lui, Dan Brown, non si fa attendere. L'introduzione di Antonio Riccardi, direttore letterario Mondadori, è ovviamente entusiastica: «Inferno è una macchina narrativa che riattiva la circolazione sanguigna della letteratura d'avventura», nonché un atto d'amore verso la civiltà italiana e un suo prodotto letterario, la Commedia dantesca, matrice di innumerevoli suggestioni. Dan commenta a questa prima introduzione con un sonoro «Wow!»: è perfettamente a suo agio. Dal mio posto di spettatrice, capisco che proprio il contrasto tra la sua convivialità straight e l'austero nitore degli affreschi alle sue spalle rende perfettamente l'idea della sua scrittura: un incontro tra arte e cultura pop, tra enigma e consumo. Questa volta l'ispirazione per l'enigma non viene però dall'arte, ma dalla letteratura.

© Laura Ingallinella
Dan Brown comincia subito a raccontare del suo primo incontro con Dante: da matricola, in un corso d'italiano, legge una riduzione in prosa della Divina commedia e ne rimane affascinato (un mito personale che sembra particolarmente affine al racconto che il premio Pulitzer 2011 Stephen Greenblatt fa del suo incontro col De rerum natura di Lucrezio: anche qui ambiente universitario, riduzione in prosa, fascino immediato, il che la dice lunga sul modo in cui si svolgono tanti incontri con la letteratura classica e medievale in ambienti statunitensi). Secondo Dan Brown, Dante conta soprattutto per l'aver modellato l'immaginario occidentale dell'aldilà. «Dante può essere considerato l'inventore dell'inferno cristiano»: dati storico-letterari alla mano, quest'affermazione è più vera per una parte dell'inferno, il limbo, ma ci dà senza dubbio un'idea di come l'autore di Inferno legga l'opera dantesca. «La Commedia, come il ritratto di Monna Lisa, permea la cultura occidentale». Al di là dei twist avventurosi, ciò che Dan Brown si è prefisso nella scrittura del suo ultimo romanzo è, per sua convinta ammissione, ritrovare la modernità del poema dantesco - nelle parti che più lo colpiscono come autore di thriller: quelle terribili dell'Inferno - e fare un esperimento, leggerlo attraverso gli occhi di un villain. Da qui il legame con la scienza, sempre attivo nella sua scrittura: se un uomo folle legge i versi di Dante come una profezia, fino a dove può spingersi?

In realtà dalle parole di Dan Brown sparisce molto presto ogni riferimento dantesco. Risponde sbrigativamente a chi gli chiede cosa pensa delle critiche negative. Accenna ai progetti di adattamenti cinematografici dai suoi romanzi: attualmente si sta lavorando a Il simbolo perduto, ma anticipa che ci sono già fortissimi interessi su una trasposizione di Inferno, e che gli piacerebbe poter riservare un ruolo a Benigni, di cui dichiara con candore di aver seguito il TuttoDante su Youtube. Parla con conviviale disinvoltura della propria idea del sacro, molto laica: «Sacro è il rispetto delle idee altrui, e capire che la cosa importante è la ricerca non l'arrivo». A una domanda à la Calvino, cosa è per lui l'inferno, risponde ancora, in modo pianamente laico, che «inferno e paradiso sono in molti angoli della terra, e spesso insieme». Risponde alle inevitabili le domande sull'organizzazione dietro alle minacce di Inferno, il Consortium («ho prove dell'esistenza di almeno tre organizzazioni simili, costituite col preciso scopo di aiutare altre organizzazioni a mentire»), sul pericolo delle sperimentazioni genetiche e dell'uso criminoso di tali sperimentazioni. 

Un cameraman riprende la maschera mortuaria di Dante, citata in Inferno

Concludo questo percorso accennando a due belle domande. Primo, sulla scrittura. Si chiede a Dan perché tenda sempre a condensare le vicende narrative dei suoi romanzi in archi di tempo brevissimi - in Inferno, ventiquattr'ore - e la risposta ci dice molto sul modo in cui scrive: «Si tratta di un test che mi sono imposto, per dare ritmo (ma meglio l'originale: pace) alla mia storia». Un narratore consumato come lui sa che la scrittura che avvince è come la vita spogliata dei suoi particolari noiosi. Ben più importante, a mio avviso, la domanda posta Francesco Mannoni del Mattino. Interrogato sulla sua concezione del male, Dan risponde: quello che gli interessa, nei suoi romanzi, è porre un dilemma etico. «Adoro esplorare la 'zona grigia' della morale. Per questo nei miei libri c'è chi fa le cose giuste per le ragioni sbagliate, e chi fa cose sbagliate magari per ragioni condivisibili. Trovo questo molto interessante». Lo trovo anch'io, e sfrutto questo spunto per chiudere la cronaca dell'incontro con un'affermazione-bomba: credo che Dan Brown sia un autore molto più "medievale" di quanto si pensi.

Semplificata all'osso, la struttura dei suoi romanzi è costituita da una serie di tappe attraverso luoghi-opere cruciali. Queste tappe sono obbligatorie nel loro ordine di percorrenza e corrispondono a un doppio evento: da una parte si risolve lentamente il mistero che sta tormentando Langdon (fatto tipico della trama thriller), dall'altra però ognuna di queste tappe, in modo ben più sottile, aggiunge un tassello al dilemma etico. Lo stesso Dan ha accennato al fatto che i libri che scrive sono legati indissolubilmente ai simboli con cui si scontrano i personaggi: ma ogni simbolo è praticamente bifronte, come nella miglior tradizione della lettura medievale (stratificata). Forse è proprio questo il segreto del successo mondiale di romanzi di consumo come i suoi: una trama perfettamente modulare, fatta di stazioni e passaggi logici obbligati, offre una lettura facile, che perdona anche i lettori più distratti; al contempo, pone un interrogativo oscuro (l'ambiguità tra bene e male) senza fornire, stavolta, il conforto di coordinate etiche certe. Il lettore senza pretese è insieme scosso e rassicurato: cosa potrebbe desiderare di più?

Laura Ingallinella